Un Pd senza identità, con Letta fermo al progetto di venti anni fa. E che sul ddl Zan deve accettare il compromesso perché “digrignare i denti non fa bene in una coalizione così”. Un Movimento 5 Stelle con un futuro ridimensionato “intorno al 10%”. E Mario Draghi come profilo ideale per il Quirinale per fare da garante all'Italia. L'analista politico Pino Pisicchio, ex parlamentare e docente di diritto pubblico, parla a trecentosessanta gradi sullo scenario politico. E, in questa intervista a IlGiornale.it, non è ottimista su una riforma della Giustizia in Parlamento.
Il ddl Zan continua a tenere banco. Meglio la strategia di Renzi, orientata al compromesso, o l'intransigenza di Pd e 5 Stelle, che vogliono vedere se al Senato regge la vecchia maggioranza giallorossa?
"Quando si fa ricorso al politically correct si scivola in un territorio incognito, che favorisce scontri. Al di là del contenuto del ddl, c’è una questione metodologica da affrontare. Se la maggioranza è così ampia, la soluzione necessaria è il compromesso. Chi non lo vuole, allora deve affrontare il tema quando c’è una coalizione con autosufficienza".
In fondo sembra che tutti vogliano affossare il testo in nome della propaganda…
"C’è un clangore proiettato verso un elettorato affascinato e sensibile a questi richiami. Ma il digrignamento dei denti non fa bene in una coalizione così composita. L’esperienza da presidente della commissione Giustizia mi dice che chi vuole un risultato su un provvedimento deve mettere nel conto il compromesso. Non serve solo la certificazione di un impegno su un obiettivo".
Da giorni si assiste a un altro scontro, quello interno al Movimento 5 Stelle. La via della scissione è inevitabile, magari con una separazione che conviene a tutti?
"Il M5S vive un paradosso: ha i gruppi parlamentari più ampi in Parlamento, ma rischia di implodere. Ci sono almeno tre diversi filoni all’interno di questo Movimento. Il primo è quello filogovernativo, incarnato dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. È un filone che tende a rimarcare gli aspetti riformisti e istituzionali. Un secondo pezzo è quello di Casaleggio e Di Battista, che tende a realizzare il richiamo della foresta, con tanto di Tarzan e di liane. E infine un terzo filone riporta a Giuseppe Conte, che un giorno sembra voler andare verso la costruzione di una forza centrista ma il giorno dopo pare voglia essere investito a capo del Movimento. Una sintesi delle prime due anime".
E quale può essere il punto di caduto di questa confusione?
"Se non c’è una scissione conclamata si tenderà a mettere la scotch su una situazione alquanto disarticolata. Per questo credo che lo show-down sarebbe un elemento di chiarezza per avere un ruolo e un futuro".
Quindi il Movimento 5 Stelle ha un futuro…
"Credo di sì, ma ridimensionato, anche rispetto alle stime attuali. La caratura è quella di una forza del 10%. Ma deve scegliere che tipo di identità vuole darsi. Il problema è che non riesce a identificarsi con un popolo preciso. Qual è la posizione? Quella europeista o l’altra filocinese? Poi c’è il Partito democratico che occupa uno spazio politico, il M5S non deve cercare di sovrapporsi al Pd. Se fa le stesse cose non ha più una ragione sociale. La strada deve essere trovata prima possibile, la coperta del governo Draghi non dura in eterno".
Parlando del Pd, l’arrivo di Enrico Letta alla guida non ha fatto compiere alcun salto in avanti. Quali sono i motivi di questa mancanza di spinta?
"Il problema del Pd è identitario. Diciamolo fuori dai denti: qual è l’identità del Partito democratico? Letta ha riproposto un modello che rimette in campo le idee di venticinque anni fa. Parliamo dell’Ulivo, niente di più. Ha cominciato con una proposta di riforma elettorale che ripescava il Mattarellum, non condivisa da parte della dirigenza del Pd. Letta ha rilanciato parole e strumenti di quella stagione, come le primarie. Ora si presenta alla prova delle Amministrative, che per un partito così rappresentano una tappa importante, con candidature di persone perbene ma che non sono capaci di trascinare. Bonaccini, in un’intervista, ha espresso gli stessi concetti, anche se con parole diverse".
E quali sono le prospettive di Letta e del Pd?
"Nel nuovo quadro di riferimento, il Pd rischia di ritrovarsi senza alleati importanti. E per sua fortuna che non tira aria di maggioritario, altrimenti sarebbe finito nell’irrilevanza. Occorre una riflessione interna: rincorrere il politicamente corretto non funziona, non è sufficiente. Se il Pd torna a fare il Pd, puntando sulla politica sociale, forse trova un’identità".
Intanto resta in stand-by la riforma della Giustizia, a causa delle pesanti divisioni. Il referendum può essere lo strumento per compiere dei passi in avanti?
"Storicamente i referendum hanno svolto compiti diversi da quelli pensati inizialmente. Hanno smosso sempre l’attività legislativa. Ma attenzione: questo accade quando il Parlamento è in grado di assumere l’iniziativa. Altrimenti questo referendum rischia davvero di diventare una sorta di ordalia, un giudizio di Dio, sulla magistratura, che in questo momento non è al top del gradimento nel popolo. La politica deve darsi una mossa e individuare un punto di caduta. Spero si trovi una via d’uscita positiva, ma non sono sicuro che andrà così".
L’esperienza del governo Draghi ha capovolto gli scenari politici. A destra c’è davvero una Lega europeizzata?
"Salvini è un animale elettorale di rara qualità. Venti anni fa non avrebbe avuto lo stesso successo, ma in una politica totalmente mediatizzata il leader della Lega è capace di trascinare un consenso personale. È evidente che si muova verso una dimensione di legittimazione europea. Ha cambiato registro, proprio perché ha qualità e sensibilità per capire il contesto. Certo c’è qualcosa che stride. Non ho capito, per esempio, la firma con l’alleanza sovranista: non va nella direzione che ha preso negli ultimi tempi".
Da ex parlamentare di lungo corso, cosa prevede per l’elezione del Presidente della Repubblica?
"L’aspetto singolare è che, passano gli anni, ma ai nastri di partenza si vedono sempre gli stessi. Romano Prodi, Massimo D’Alema, adesso si è aggiunto Dario Franceschini. Ricordo, però, che il Capo dello Stato viene scelto ed eletto negli ultimi giorni prima della scadenza del voto, quasi all’ultimo momento. Chi riprende le rincorse troppo lunghe, finisce inevitabilmente per sbattere".
Ma un nome riesce a immaginarlo?
"Se il Capo dello Stato in carica avesse lasciato degli spiragli, non avrebbe avuto problemi a essere reinvestito del ruolo. Ma Mattarella non poteva essere più chiaro di così. E c’è di più rispetto alle dichiarazioni: la sua sensibilità costituzionale lo rende contrario alla rielezione del Presidente della Repubblica. Dovrebbero torturarlo per fargli fare di nuovo il Capo dello Stato. Per questo non vedo altri profili diversi da Mario Draghi".
Quindi Draghi va al Colle e la legislatura finisce nel 2022?
"La legislatura finisce nel 2023. Draghi sarebbe votato da tutti, perfino dalla Meloni, che lo farebbe sperando in un ritorno alle urne. Ma Draghi, da Presidente della Repubblica, potrebbe indicare come presidente del Consiglio una persona credibile del suo governo.
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