"Osannato da chi lo tradì...". Cosa c'è dietro il Pd di Letta

Osannato dal gotha del Pd E da coloro che sette anni fa (sinistra dem e franceschiniani) affossarono il suo governo

"Osannato da chi lo tradì...". Cosa c'è dietro il Pd di Letta

Enrico Letta è tornato in Italia, osannato come un salvatore della patria dal gotha del Pd che lo ha voluto come successore di Nicola Zingaretti.

Nella memoria collettiva l'hasthag #Enricostaisereno, pronunciato da Matteo Renzi ospite nel programma di Daria Bignardi, è la pietra tombale sull'esperienza di governo di Letta jr. Ma la defenestrazione dell'allievo di Beniamino Andreatta non fu opera esclusiva dei renziani. Nel corso della direzione nazionale del 13 febbraio 2014, la relazione finale dell'allora segretario Matteo Renzi fu approvata con 136 voti favorevoli, 16 contrari e 2 astenuti. Quella fu la sentenza finale che determinò le dimissioni di Enrico Letta, il quale il giorno prima aveva giocato la sua ultima carta per restare a Palazzo Chigi: la presentazione di un nuovo programma di governo, 'Impegno Italia'. Tutto inutile. Dopo il voto, la Direzione del Pd "ringrazia Enrico Letta e rileva la necessità e l'urgenza di aprire una fase nuova con un esecutivo nuovo che si ponga un obiettivo di legislatura".

Tra i contrari, oltre a Pippo Civati, vi era l'allora presidente del partito, la prodiana Sandra Zampa che, intervistata dal Corriere di Bologna, il giorno successivo al voto dichiarò: “È stata una pagina triste non lo nego. C’erano esponenti del Pd che fino a pochi giorni fa ti richiamavano all’ordine quando esprimevi dubbi su un provvedimento del governo, che ieri non sapevano più chi fosse Enrico Letta. Franceschini non c’è mai. Trovo disgustoso e ipocrita che quelli che fino a pochi giorni fa ti minacciavano di espulsione se non ti attenevi alle decisioni ora dicano “Letta chi?”. Ho visto il volto cinico della politica che avevo già visto quando Prodi restò solo a Palazzo Chigi. Allora c’erano solo Santagata, Padoa Schioppa e Bersani”.

A destare stupore fu, infatti, la decisione della minoranza dem guidata proprio da quel Gianni Cuperlo che aveva sfidato Renzi al Congresso.“Assumiamo la linea politica indicata dal segretario, avevamo auspicato che non ci fosse un voto per evitare ulteriori lacerazioni ma di fronte alla necessità di esprimersi sul documento, proposto dal segretario, voteremo a favore. Ritengo necessario evidentemente che il Pd poi, in direzione e nei gruppi, discuta di contenuti e dei programmi”, disse Cuperlo prima del voto. Il giorno seguente, intervistato da Repubblica, spiegò: “Per settimane ho suggerito a Enrico di assumere una iniziativa di rilancio nel programma e nelle personalità da coinvolgere. E questo a fronte di un governo che perdeva pezzi e nel cuore di una crisi sociale drammatica. Abbiamo sempre detto che se Letta fosse riuscito a a guidare la ripartenza, il Pd avrebbe dovuto appoggiarlo. Ma se quella condizione non ci fosse stata, allora toccava al leader democratico dire come uscire dalla crisi. Renzi lo ha fatto, parlando di un cambio radicale di governo e di guida".

Sia come sia, Cuperlo nel 2014 affossò Letta, né più né meno di come fece Dario Franceschini che oggi, invece, è stato il principale kingmaker del ritorno dell'ex premier. “Nel Pd succede sempre così. All'inizio noi renziani eravamo una ventina e ci riunivamo in una stanza. Da un giorno all'altro, Franceschini, tra lo stupore dei suoi, decise di sostenerci e gli antirenziani sparirono improvvisamente”, spiega a ilGiornale.it il deputato renziano Michele Anzaldi che, poi, ricorda:“Letta, una volta dimessosi, non venne in Parlamento per dieci giorni e, quando tornò, era considerato quasi un appestato. Solo io mi avvicinai per salutarlo e la notizia sembrò così clamorosa che ci uscì persino un lancio di agenzia. E, oggi, eccoli lì tutti ad acclamarlo segretario all'unanimità...”.

In pratica, sebbene Letta sia stato richiamato all'ordine a furor di popolo, potrebbe, come è già successo in passato, finire presto nel tritacarne delle varie correnti. I primi ostacoli potrebbero arrivare già con in autunno quando si voterà per le Comunali a Torino, Bologna, Napoli e soprattutto Roma. Un appuntamento elettorale che, come ci spiega il politologo Massimiliano Panarari “nasconde i veri elementi di conflittualità e i nodi irrisolti della gestione Zingaretti” come ad esempio “l'individuazione dei candidati nelle grandi città e il modello di coalizione del centrosinistra”. “Il modello del partito-tenda' che Letta ha illustrato nel corso del suo discorso di accettazione è una sorta di neo-ulivismo che dovrà essere il più largo possibile”, sottolinea Panarari. “Il problema sarà proprio quello di costruire questo partito-tenda perché da un lato al centro abbiamo una situazione di forte ebollizione con la crisi di +Europa e con Calenda che ha dichiarato di voler rimanere in campo a Roma e dall'altro c'è il tipo di rapporto che il Pd costruirà col M5S”, chiarisce ancora il politologo.

Se, dunque, da un lato è vero che “Letta, per non vuole subire l'egemonia dei Cinquestelle, non andrà nella direzione di un'alleanza organica col M5S come la immaginavano Bettini e Zingaretti”, dall'altro è altrettanto vero che “la componente zingarettiana non solo è ancora molto presente nel Pd, ma ha contribuito in maniera notevole per eleggere Letta segretario”. “Sarà un bel bricolage”, chiosa Panarari, riprendendo, indirettamente, la metafora “del cacciavite”, usata da Letta proprio durante il suo primo discorso da segretario in pectore.

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