Il Papa arriva a Cipro e dice senza tanti giri di parole: «Toccheremo anche delle piaghe». Poi vola ad Atene ed è ancora più drammatico: «La democrazia arretra».
«Purtroppo - spiega Roberto Formigoni - il Papa coglie la realtà intorno a noi. Le piaghe che già c'erano sono peggiorate negli anni. Cipro è spaccata in due dal 1974 e la ricomposizione dell'isola e di là da venire. Ma poi, se volgi lo sguardo al Mediterraneo nel suo complesso, vedi una serie di disastri che lasciano senza fiato: la Libia, spezzettata e divisa in cento tribù, la Siria, un Paese distrutto che nessuno ha voglia di caricarsi sulle spalle, per non parlare dell'Afghanistan, lasciato in balìa dei Talebani con la precipitosa fuga degli americani questa estate. Sì, la democrazia va indietro».
Formigoni, lei è stato presidente della Regione Lombardia per quasi vent'anni, ma è stato anche vicepresidente del Parlamento europeo e ha coltivato una sua politica estera. Ora, dopo la tempesta giudiziaria che l'ha colpita, è concentrato sulle vicende internazionali. Che cosa è mancato in questi lunghi anni?
«Negli anni '90 io e altri abbiamo cercato in qualche modo il dialogo con i regimi del Medio Oriente, in particolare con l'Irak di Saddam Hussein, ma gli americani hanno scelto un'altra linea: hanno invaso il Paese e mandato a casa tutta la nomenklatura e i quadri dirigenti. Un errore clamoroso. Anzi, un disastro».
Come è stato il suo incontro con Saddam?
«Ricordo un meeting di tre ore: l'Irak era sull'orlo del conflitto e io provai in tutti i modi a scongiurare la guerra e a farlo ragionare. Si capiva che era un uomo di potere, peraltro carismatico, ma con lui i cristiani, rappresentati al livello più alto dal suo braccio destro Tarek Aziz, con cui ho parlato tante volte, erano una minoranza rispettata e con un peso importante nel Paese».
Poi?
«Ha prevalso l'idea, astratta, fallimentare, di esportare la democrazia. Risultato: si è sfiorato lo scontro fra civiltà, è nato un terrorismo islamista feroce e sanguinario che ha cambiato la storia, molti stati sono letteralmente esplosi».
Una parabola tragica che lei racconta nella sua biografia, «Una storia popolare», scritta con Rodolfo Casadei e pubblicata quest'anno.
«Sì, ho dedicato molte pagine a ricostruire quel che è accaduto negli ultimi trent'anni in Medio Oriente e poi nei rapporti fra Occidente e Oriente. Purtroppo gli sbagli di quella stagione hanno avvelenato tutto il periodo successivo e pesano in modo determinante anche oggi».
La ritirata dall'Afghanistan segna la fine di un'epoca?
«Dobbiamo metterci in testa che gli Usa non sono più il gendarme del mondo e che non faranno più le guerre per l'Europa».
Ma l'Europa in politica estera ha 27 voci. Come fare?
«Dobbiamo cominciare a costruire un'Europa che abbia una sua strategia per difendere i propri interessi e un vero ministro degli Esteri. Di più, ci vuole un esercito europeo. Iniziamo con una struttura militare di difesa, ma poi è chiaro che questa task force dovrà mobilitarsi in giro per il mondo, nelle aree più problematiche e sature di tensione. Se non correremo ai ripari, siamo condannati all'irrilevanza».
In questo contesto drammatico Papa Francesco è atterrato a Cipro e ora è in Grecia.
«Il Papa porta un messaggio di speranza, indica la strada da seguire, lancia un segnale controcorrente. Oggi sarà a Lesbo, ad abbracciare migliaia di profughi».
Sarà un viaggio simbolico?
«No, concreto come le vite di quei disperati ai nostri confini. Purtroppo si continua a giocare allo scaricabarile sulla pelle dei migranti, mollandoli di volta in volta all'Italia, alla Grecia o agli altri paesi ai bordi del Continente. Uno spettacolo indegno che il Pontefice stigmatizza.
Ma non possiamo rinunciare a batterci e a proporre soluzioni più ragionevoli, con un minimo di condivisione, ma anche di lungimiranza. L'Europa deve ritrovare un ruolo dove l'aveva e l'ha perso. Sarà un percorso difficile, ma non ci sono alternative».
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