Sono le diciotto e cinquanta del nove ottobre. Anno 2014. Quasi ventiquattro mesi fa. Bernardo Caprotti sta leggendo con voce non troppo alta, ma ferma, senza declamare, sincera, davanti al notaio Carlo Marchetti tredici fogli battuti a macchina, macchiati da appunti e considerazioni scritte a mano. Ogni tanto si ferma, sottolinea, spiega, riflette, apre ricordi, pezzi di vita, strati di dolore. È il suo testamento.
Ha cercato di mettere a posto tutti i pezzi, con metodo. Sa che il futuro non si può ingabbiare. Non si comanda. Ma puoi cercare di intuire l'imprevedibile, per limitare i danni. È quello che fa da una vita, forse funziona anche dopo la morte. Il resto, oltre i numeri, i beni, le quote e le legittime, è la sua visione del mondo, i valori, lo stile, le idiosincrasie, le paure, quello in cui crede e quello che non si è riuscito a perdonare. Questo atto notarile, in apparenza burocratico, è il monologo di un Gran Lombardo, forse uno degli ultimi. Andrebbe studiato nelle scuole. Ha la stessa forza del discorso di Steve Jobs alla Standford University, con altro stile ed altra età: «Siate affamati, siate folli». Perché nelle parole di Caprotti c'è l'orma e l'anima di una schiatta d'uomini sempre più rara, quella che ha rimesso su un'Italia in macerie, testarda, burbera, doverista, intraprendente, che al termine della notte ha immaginato un futuro e se lo è preso, senza alibi, senza sconti, faticando attimo dopo attimo, oltre i limiti, senza arrendersi, come in una maratona, rischiando, con la passione che è un demone ossessivo e di notte ti manda a pezzi il cuore.
Caprotti che pensa al suo funerale, «che sia al mattino, il più presto possibile, onde non disturbare il prossimo». Caprotti che non vuole necrologi, «sarebbero paginate di fornitori cortigiani». Caprotti sa che non esistono famiglie felici. Non gli tocca a quelli come lui. «Ma almeno non ci saranno lotte. O saranno inutili. Le aziende non saranno dilaniate». Caprotti sa, come Enzo Ferrari, che in questa Italia invidiosa e bigotta, ti perdonano tutto tranne il successo. Caprotti mette nero su bianco che Esselunga non dovrà mai finire nelle mani delle Coop. No, non è questione di concorrenza, ma di etica. Non teme la vendetta dei nemici sul suo cadavere. Non accetta semplicemente l'ipocrisia e i vantaggi di fare affari sotto la maschera dell'ideologia. È quello che racconta in Falce e carrello. È coerenza. È orgoglio. Caprotti che non si offende se lo chiamano droghiere, perché sa che dietro quella parola c'è una cultura antica e il commercio è fatto di coraggio e di esperienza e di saperi e di studi e di libri e di bellezza. E se lasci in eredità un De Chirico o un olio su tela di Zandomeneghi non è per quanto vale, ma perché lì dentro ci sei tu, ti ci specchi, ti ci riconosci.
E la casa non sono solo quattro mura e neppure una costellazione di ville, ma quello che c'è dentro, come la biblioteca del bisnonno Giuseppe, quattromila volumi, e l'archivio di famiglia. «Il corpo di tutto questo costituisce il centro delle nostre origini, la nostra tradizione, quello che siamo.
Questo ho tramandato a mio figlio Giuseppe, in questo conto ho tenuto questo mio figlio». Caprotti ti dice che dietro ogni impresa c'è molto di più di quello che appare. Per questo ogni volta che scompare un marchio, un negozio, un'officina se ne va un pezzo di universo.
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