Facciamoli una buona volta i conti con la responsabilità. Approfittiamo della pandemia per confrontarci con le scelte e i comportamenti, per essere valutati e giudicati, per intendere la vita in un modo che tanti hanno sempre schivato. La responsabilità è in conflitto aperto e cruento con i fondamenti stessi del nostro vivere sociale, è inconciliabile con quella genialità maligna che prima ha esteso a tutti i pentiti quel perdono pensato in origine per quelli che «non-sanno-ciò-che-fanno» e più tardi, nel Concilio di Lione, ha addirittura istituito il purgatorio affinché ognuno possa morire con l'illusione di non essere eternamente dannato. Su queste basi di filosofia sociale si innesta il dibattito sulle prossime aperture. Chi mandando avanti i medici strilla sull'avventatezza della scelta ha pienamente ragione, secondo la logica del popolo incosciente, che deve essere sempre portato per mano e lasciato libero solo dentro un recinto sicuro. I portatori di questa visione sono dirigisti, sono amanti della norma e della procedura, la cui osservanza tiene al riparo da ogni responsabilità, sollevati dal perseguimento di qualsiasi obiettivo. Secondo tale logica, se il virus circola le persone vanno tenute a casa, perché non è plausibile che vadano in giro amministrandosi, prendendo più o meno rischi. Ma proprio questa invece è stata per tanti italiani la regola auto-imposta, nella volontà di poter condurre una vita riducendo al minimo i rischi di contagio. Tuttavia, molti non l'hanno seguita: appena possibile si sono seduti uno di fronte all'altro per bere e chiacchierare senza distanza né mascherina, sol perché la norma lo consentiva. Davanti a ciò, la cultura dominante ha scelto di vietare invece di educare, nell'idea che il popolo bue possa solo ubbidire, non auto-regolarsi. In questo agevolata da chi chiede di aprire facendo solo da megafono alle pulsioni della piazza, piuttosto che trasformandole in una sfida di responsabilità. L'apertura non è la trumpiana negazione del rischio, ma la sua accettazione come sfida di responsabilità. La piazza dei giorni scorsi non era la solita fuga dalla realtà che protesta contro i mali del mondo, ma proprio la realtà che imponeva se stessa. È concreta, non vuole essere capita, vuole servire caffè e spritz. Anzi, deve. Tenere tutto chiuso, diceva, non è più un'opzione. Punto. Dopo tre lock-down i jolly sono finiti: ognuno porti il peso delle sue scelte. Non sono state migliorate le infrastrutture tangibili perché il nostro sistema non lo consente, e pure di questo toccherà occuparsi. Ma non è stata nemmeno diffusa la struttura intangibile, il senso di responsabilità, perché la cultura non lo prevede. Chi si dichiara paladino del popolo non lo stima, il popolo.
Non pensa che possa diventare adulto e responsabile e magari manco lo vuole. È conservatore, altro che progressista. Purtroppo la narrazione contraria non riesce a proporsi come espressione di una filosofia diversa, che aspettiamo da tempo. Da circa cinque secoli.
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