Se si ripercorrono le cronache degli ultimi ottant'anni si scopre che lo stato della giustizia, da noi, è sempre lo stesso: presenza costante di un pregiudizio ideologico e sociale che influenza magistrati e sentenze, incertezza e sostituzione del diritto di variabili politiche e sociali. Eravamo la patria del diritto e siamo diventati, col dopoguerra, la patria del rovescio; tutte le proposte di riforma del sistema giudiziario sono rimaste nell'ambito delle buone intenzioni e non se ne è fatto nulla. Ma il problema resta, figlio della cultura che aveva diviso il mondo fra chi stava da una parte (il mondo democratico liberale occidentale) e chi stava dall'altra (il comunismo), e non scendeva mai sul terreno empirico per stabilire se ciò che era emerso nei tribunali, piuttosto che in Parlamento, fosse rispetto dello Stato di diritto o, non piuttosto, ossequio ideologico a un parte politica. I danni fatti dalla cultura di sinistra sono pressoché irreparabili. Personalmente, ritengo un errore applicare acriticamente il diritto positivo, che è, poi, una forma di giustizia che non tiene conto dell'evoluzione della cultura giuridica da cui dovrebbe discendere. Il positivismo giuridico è un modo meccanicistico di fare giustizia, non di attenersi alla cultura giuridica che dovrebbe sempre presiedere ogni decisione giudiziaria. Lo dico con cognizione di causa, e molto rammarico, perché me ne sono occupato senza registrare cambiamenti nello stato della giustizia.
Prevale ancora il pregiudizio ideologico e sociale sulla certezza del diritto in nome di una dogmatica applicazione di una disciplina che evolve sulla base della cultura giuridica nel corso del tempopiero.ostellino@ilgiornale.it
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.