«Sono i pazienti e i loro familiari che stanno dando forza a noi. E non è retorica. Dopo sei ore di attesa per un'ambulanza, si scusano per il disturbo e ci dicono di capire quanto sia difficile il nostro lavoro. Se chiamano la nostra sala operativa, a fine telefonata ci ringraziano per la pazienza, per averli ascoltati. C'è un'umiltà, una dignità e una civiltà che nel lavoro ordinario di solito non riscontriamo. Questa emergenza sta tirando fuori il meglio degli italiani. Sarebbe bello se rimanessimo tutti così umani».
Paolo Baldini, 47 anni, infermiere in prima linea da venti, ne ha viste tante. Pronto soccorso, centrali operative e ambulanze. Malati di ogni genere, incidenti gravi. «Ma stavolta è diverso». Le chiamate dirottate dal 112 e dal 118 alla centrale operativa di Lodi, Pavia, Mantova e Cremona - la Soreu della Pianura, coordinata da Areu, alle dipendenze di Regione Lombardia e per cui Baldini lavora - si sono quintuplicate nei primi giorni dell'emergenza, da 500 a 2400-2600. Poi sono arrivati i rinforzi ma ancora oggi le telefonate per interventi sanitari urgenti sono il doppio del normale.
Cos'altro c'è di diverso, per voi in prima linea, in questa emergenza coronavirus?
«Non solo il fiume di richieste di aiuto, che riducono il tempo che possiamo dedicare ai pazienti. C'è anche una sensazione d'impotenza. Spesso quando soccorriamo un malato, riusciamo a curarlo e a farlo guarire. Questo invece è un virus che non ha cura. C'è chi guarisce e chi no».
Che situazioni vi trovate di fronte?
«Persone che non stanno bene oppure persone che ci chiedono di aiutarle a valutare cosa fare con un familiare che non sta bene. Alcune chiedono di poter essere ricoverate dove si trova l'altro parente già ammalato, di cui magari non hanno notizie da 10-12 ore, perché tanto si aspetta in pronto soccorso per essere visitati».
L'attesa è una costante di questa emergenza.
«Molti aspettano tutto il giorno la telefonata dei reparti ospedalieri, che a volte dura venti secondi, per sapere se la moglie o il marito sono stati intubati, se respirano meglio. Ma tutti hanno consapevolezza che la situazione è seria, drammatica. Stanno dimostrando grande resilienza e dignità. Non c'è nessuno che alzi la voce, nessuno che minacci. Ormai ci chiamano solo quando stanno davvero male. Anche questo è drammatico».
È vero che c'è anche chi decide di non chiamare più i mezzi di soccorso?
«È successo con una signora del Lodigiano. Suo marito, 57 anni, era ricoverato in rianimazione da una settimana. Suo fratello, 49 anni, era morto qualche giorno prima. E lei chiamava per la madre, che abitava al piano di sotto, 88 anni. Quando le ho detto che non sapevo se avrei potuto portarla nell'ospedale dove era ricoverato il marito, ci ha pensato un po' e mi ha detto che avrebbe tenuto la mamma a casa. Non voglio che muoia da sola in ospedale, mi ha spiegato».
Come'è la sua fine giornata?
«Uno schifo. Perché so di non avere aiutato tutti come avrei voluto, perché c'è la paura di ammalarsi, come sta succedendo a tanti colleghi. Perché ho amici e parenti che stanno male».
I suoi post su facebook sono virali. Perché li scrive?
«Come sfogo, ma anche per raccomandare alla gente di restare a casa».
L'Italia vi chiama eroi
«Lasci perdere. Io voglio solo fare il mio lavoro con competenza, professionalità e grande passione. Chiamatemi solo infermiere. Infermiere Baldini».
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