Un martire della passione per la giustizia, un magistrato modello, oltre che un uomo innamorato di Dio. Nei giorni in cui la magistratura è attraversata da demoni potenti, scossa dal caso Amara, dallo scandalo dei corvi e dei dossieraggi, oltre che dal Palamaragate, Rosario Angelo Livatino viene beatificato nella cattedrale di san Gerlando ad Agrigento. Ucciso, «in odio alla fede», da quattro killer della «stidda», la cosca ribelle dell'agrigentino, il 21 settembre 1990, quando non aveva ancora 38 anni, ma era in magistratura già da 12, Livatino diventa così il primo magistrato beato nella storia della Chiesa. Una figura a cui Alfredo Mantovano - giudice della Corte di Cassazione e vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino - con un gruppo di giuristi dedica da tempo passione, analisi e studio e sul quale con Mauro Ronco e Domenico Airoma ha scritto il libro «Un giudice come Dio comanda» (Edizioni Il Timone).
«Il nostro sforzo - racconta Mantovano - è stato quello di ricercare l'essenza profonda della sua figura analizzando i suoi scritti. Lo studio dei suoi provvedimenti fa comprendere perché la Chiesa ha riconosciuto il suo sacrificio. Un sacrificio che lo ha portato fino al martirio e che si innesta su una passione civile e professionale spinta al massimo grado. I suoi provvedimenti erano accurati, non certo frutto di un copia e incolla come spesso accade oggi. Una capacità di approfondimento dettata dalla consapevolezza di avere a che fare con il sangue e la carne delle persone». Nell'agendina che trovarono accanto al suo corpo c'era la sigla STD, Sub Tutela Dei. «Il significato religioso della sua missione si intreccia, oggi come ieri, con la questione della degenerazione correntizia o dell'inquadramento ideologico ricercato da molti magistrati. Per molti l'appartenenza a una corrente diventa una sorta di assicurazione contro la scarsa professionalità. Livatino non aderì mai a nessuna corrente e rese chiara quale fosse l'unica tutela che a lui interessava».
C'è un aspetto che Mantovano tiene a sottolineare. «Livatino smise di fare il magistrato inquirente, passando alla magistratura giudicante anche perché non si riconosceva in pieno nella riforma. Con il nuovo codice del 24 ottobre 1989 il Pm smetteva di fare da filtro di giuridicità del lavoro della polizia giudiziaria ma diventava colui che dirigeva le indagini. Preferì non avere un ruolo che poteva apparire troppo di parte». L'altro elemento professionale e caratteriale in controtendenza è il suo riserbo. «Una caratteristica rara di fronte a magistrati che da decenni depositano gli atti nelle redazioni dei giornali ancora prima che in cancelleria. Livatino non ha mai fatto una conferenza stampa o rilasciato uno intervista. La sua dirittura morale era specchiata. Una volta venne chiamato a fare un sopralluogo in occasione di un regolamento di conti tra mafiosi. Un ufficiale dei carabinieri commentò vedendo la scena con le parole uno di meno. Livatino lo apostrofò: Di fronte alla morte chi ha la fede prega, chi non ha la fede sta zitto».
L'attualità di Livatino per Mantovano non è in discussione. «Se non fosse stato ucciso, sarebbe ancora in servizio. È una figura che può dire molto al magistrato di oggi: grandissima professionalità, dirittura morale, conoscenza attenta delle norme e degli orientamenti giurisprudenziali, sforzo per cogliere la verità del fatto sottoposto al suo giudizio e grande dedizione al lavoro. Mi paiono doti esemplari per il magistrato di ogni tempo, ma soprattutto per il magistrato del nostro tempo». Per Mantovano però sarebbe riduttivo ridurre la sua immagine a un santino. «La sua non era solo la figura di un magistrato incorruttibile ma spiccava l'elevato profilo professionale. Una caratteristica non scontata soprattutto oggi. Un giudice scrupoloso nel fare le verifiche, aggiornatissimo pur non essendoci gli strumenti di oggi.
I suoi provvedimenti reggevano i gradi di giudizio, venne ucciso anche perché era difficile da contestare. Gli atti di Livatino sono un compendio di deontologia che tutti i magistrati dovrebbero studiare e da cui tutti dovrebbero trarre insegnamento».
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