"L'opposizione ci farà bene". Ma il Pd critica la linea Renzi

Matteo non cambia idea: "Tanto si mettono d'accordo". Franceschini: il partito è silente, chiarire la strategia

"L'opposizione ci farà bene". Ma il Pd critica la linea Renzi

Fuori dai giochi, umiliato anzi tramortito nella partita su questori e segretari, il Pd scopre che cosa significhi andare in astinenza di potere dopo averne maneggiato a piene mani, e tasche (senza che gli italiani l'avessero neppure scelto, all'uopo).

Non rimane perciò che dedicarsi ad arsenico e vecchi merletti, nella trincea in cui il partito s'è rintanato per ordine dell'ex segretario Matteo Renzi. Così, quando ieri mattina il nuovo capogruppo Graziano Delrio ha aperto l'assemblea dei deputati per toccare con mano l'inconsueto profilo di marginalità, molti renziani non avevano capito dove volesse andare a parare. Delrio è sembrato voler fornire, con prudenza e sagacia, un quadro d'insieme il cui vero significato era: ognuno si giochi la propria partita, almeno all'interno del partito. Al din sommesso dell'ex «ortodosso» Delrio, è corrisposto poco dopo il don inatteso di Dario Franceschini, ormai alleato sempre più distante. La scelta dei tempi ha lasciato molti attoniti, visto che il ministro della Cultura esordiva chiedendo una riunione dei gruppi prima delle consultazioni al Quirinale, così da rimettere in discussione la linea del nyet decisa impulsivamente dopo lo choc elettorale. «Oggi la situazione è in evoluzione», cercava di spiegare Franceschini, dunque occorrerebbe rivedere la strategia. A quel punto i renziani, già nervosi per l'immagine che ne trapela dai giornali, hanno fatto testuggine. Fiano, Scalfarotto e il trombato (dalla presidenza del gruppo) Guerini ribadivano che la linea è quella decisa dalla Direzione nazionale del 5 marzo e de hoc satis. Franceschini tornava alla carica, ricordando come in queste settimane di tregenda «il Pd è stato troppo silente». Il dibattito nel frattempo s'era acceso. Con il solito Orfini testa d'ariete: «Se qualcuno pensa di fare una maggioranza con M5S lo dica», ripeteva in Transatlantico ai cronisti, sfidando il «partito del Colle» che ricomincia a far capolino nell'asse sotterraneo tra Franceschini e Delrio. A supporto, nella riunione, arrivava poi anche la minoranza ufficiale, con Andrea Orlando deciso a capire un concetto che sarebbe basilare: «Ma se dobbiamo stare all'opposizione, almeno sapere che tipo di opposizione fare... da destra, da sinistra? Ancora difendendo il nostro Jobs Act, o proponendo cosa? L'hashtag #toccaaloro mica basta, mica è una risposta politica...».

Il debolissimo segretario Martina, alla fine di una mattinata di ulteriori schiaffi sulle nomine parlamentari, alla fine mediava ribadendo però che gruppi e direzione sarebbero stati convocati dopo le consultazioni con Mattarella. Il ruolo del Capo dello Stato torna cruciale, per smuovere un partito ancora eterodiretto dall'ex leader. Convinto fino all'esagerazione che «chi ha vinto le elezioni si metterà d'accordo, prima o poi; del resto, M5S e Centrodestra stanno facendo accordi in tutti i passaggi istituzionali». Renzi non resiste alla propaganda: parla così di «nuovo pentapartito», «accaparramento di poltrone e «accordo che va da Berlusconi a Di Maio», mentre «dagli insulti si passa ai toni istituzionali». Scommette sull'opposizione e scrive che «si può fare bene, e farci molto bene».

Al momento, considerato che la situazione non è per nulla chiara come finge di sostenere, l'unica certezza è che Renzi attende il tonfo generale per riscuotere un consenso «di posizione». Quando non si ha un'idea e gli altri spadroneggiano, meglio stare immobili. Fa meno male.

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