Il visconte Alexis de Tocqueville lo aveva intuito nel suo viaggio in America. È un punto cieco, quasi strutturale, nella democrazia: se la politica diventa solo ricerca quotidiana e ossessiva del consenso gli elettori si sfilano. Non ci credono più. Scatta quel sentimento di disillusione che ti fa dire: tanto è tutto inutile. È la delegittimazione di qualsiasi potere che cade nel buco nero dell'effimero. A quel punto il sistema democratico finisce per nutrirsi delle proprie viscere, implodendo nel suo fallimento e finendo per alzare sempre più i toni, urlando, bestemmiando, cercando un nemico da demonizzare con la speranza di parlare ancora di più alla pancia dei cittadini. È una spirale irrazionale, parli sempre di più ai pochi infervoranti con la speranza di recuperare la maggioranza di chi ormai non se la beve. È l'errore di prospettiva di quando si pensa che il popolo che conta sia solo quello che fa rumore sui «social». È non ascoltare il silenzio.
Se a tutto questo si aggiunge il ripudio della democrazia da parte del Mezzogiorno, che non vede nelle europee il voto utile, quello dello scambio, allora si arriva ai numeri di queste due giornate di dismissione democratica. La classe politica italiana, populista o oligarchica, sta perdendo popolo e buon senso. Non era mai successo che a votare andasse meno del 50 per cento degli avanti diritto. È uno strappo, un fenomeno da guardare in faccia e su cui riflettere e non basta liquidare ogni cosa con un «siamo diventati una democrazia matura». È l'idea che nelle democrazie stabili a votare vadano in pochi. È non rendersi conto che invece è lo stesso male che sta svuotando l'anima degli Stati Uniti.
I dati di Sicilia e Sardegna sono impressionanti. Ha votato poco più del 29 per cento. È un deserto. Il Sud non va certo meglio: poco più del 33 per cento. Va un po' meglio al Centro e al Nord (Est e Ovest), ma si sta ampiamente sotto il 50 per cento. È che questo stare perennemente in campagna elettorale, da comunali a regionali, dai sondaggi ai like, sembra togliere sostanza alla politica, a chi governa e a chi sta all'opposizione, la sostanza delle cose. Non è così. Non lo è per come viene percepita. Il risultato però è appunto quell'effimero che scaccia via il resto. Se tutto è binario, bianco o nero, zero o uno, non si ragiona, non si discute, ma ci si scontra. Tutto diventa come quelle discussioni da bar, dove personaggi più o meno eccentrici, più o meno influenti, si confrontano solo per passare il tempo e farsi notare, raccogliendo fischi o applausi con la stessa soddisfazione. L'importante è ritrovarsi sul fronte del palco. La politica come uno spettacolo dove ogni cosa è nuda, ma scompare la realtà. Solo che alla fine tutto questo annoia. Non c'è più nulla di sacro. È stato un bene togliere al potere l'ipocrisia dei tagli di nastro in bianco e nero, sfinare i pantaloni gonfi fino all'ombelico di onorevoli e senatori o i volti austeri perfetti per celare qualsiasi segreto, ma l'onda pop che annulla la quarta parente forse ha tolto, proprio come è accaduto per il teatro, un pizzico di magia.
È una questione di equilibrio. Lo spettatore che sale sul palco prima meraviglia, poi fa ridere, infine annoia. Ma la risposta più stupida a tutto questo arriva da sinistra: chi si astiene vota fascista. Non hanno, ancora una volta, capito nulla.
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