Un accordo difficile, quello raggiunto sui migranti in Lussemburgo al consiglio degli Affari Interni Ue cui hanno partecipato i ministri dell'Interno dei 27. L'intesa sarà ora la base per il negoziato col Parlamento europeo che dovrà approvare il Patto per l'asilo. Almeno nelle intenzioni, prima che termini la legislatura. Una mediazione complessa, che ha visto il voto contrario di Ungheria e Polonia, ma con un esito «positivo» per l'Italia, viene ribadito dal Viminale.
Non sarà una scatola vuota secondo il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, che si è battuto su uno dei nodi essenziali dell'intesa, quello economico. Scatterà un contributo finanziario da parte dei Paesi che non aderiscono ai meccanismi solidarietà e di redistribuzione, con 20mila euro per migrante non ricollocato. L'Italia, viene fatto notare dal Viminale, ha rifiutato la compensazione tout court e chiesto che venga destinata a un fondo europeo per la dimensione esterna, a favore dei Paesi terzi. In questo risultato si legge una vittoria di Roma, perché si sarebbe «scongiurata l'ipotesi che l'Italia e tutti i Paesi di primo ingresso venissero pagati per mantenere i migranti irregolari nei propri territori». Invece di contributi diretti da Stato a Stato, insomma, l'Italia ha chiesto e ottenuto la creazione di un fondo europeo gestito dalla Commissione, destinato ai Paesi terzi di origine e transito dei flussi. Uno dei motivi per cui Roma ha poi votato a favore dell'intesa, dopo la contrarietà iniziale del ministro Piantedosi, è che la solidarietà «ora diventa un obbligo giuridico permanente, radicato in un regolamento europeo, e non più una concessione temporanea», viene ribadito.
Nell'intesa si parla di circa 30mila redistribuzioni ogni anno, compresi anche i migranti economici e non solo i rifugiati. E soprattutto, si prevede che il Paese che li accoglierà «non potrà più scegliere arbitrariamente chi accettare e chi no», com'è stato finora, con una sorta di tacita selezione dei migranti da trasferire dall'Italia. Finora le ricollocazioni sono spesso state un flop nei numeri. Invece adesso se le ricollocazioni offerte non raggiungeranno la soglia minima, l'Italia potrà chiedere l'interruzione dei trasferimenti dei cosiddetti dublinanti - cioè quei migranti secondari che vengono rimpatriati nel Paese di primo ingresso (soprattutto dalla Germania all'Italia) - come compensazione delle mancate redistribuzioni. A questo proposito, viene definita «storica» la modifica sulla responsabilità "permanente" dei Paesi di primo ingresso rispetto ai migranti economici che si muovono in altri Paesi. Dopo 15 mesi, la gestione di questi migranti e il loro rimpatrio passa allo Stato di immigrazione secondaria.
Ma anche la cifra di 30mila ricollocamenti, si fa notare, è solo una base di partenza: di anno in anno si potrà andare oltre, sulla base di un'analisi della Commissione sull'intensità dei flussi migratori. E dato «che il nostro Paese è quello più sotto pressione, sicuramente la maggioranza delle redistribuzioni andrà all'Italia, se ne faremo richiesta», viene spiegato. A convincere Piantedosi a votare a favore sarebbe stata anche l'apertura alla richiesta italiana di implementare accordi con Paesi terzi, a partire da quelli di transito, dove espellere gli irregolari che non si riescono a rimpatriare nei Paesi d'origine. Saranno gli Stati Ue a stabilire i criteri per definire un Paese terzo sicuro, e la possibilità di rimpatriare le persone, sempre nel rispetto dei diritti umani. E poi ci sono i casi Sar, search and rescue, che «per la prima volta», si fa notare, vengono differenziati dagli altri sbarchi: «Passa il principio che discendano da obblighi di salvataggio» di cui si fanno carico sì gli Stati di frontiera, ma per conto di tutta l'Unione.
E poi c'è il dossier Tunisia, un problema italiano, che viene portato ai tavoli dell'Ue. Il Paese è diventato il principale hub delle partenze dei migranti verso le coste della Sicilia. Il governo si è trovato a misurarsi con numeri e flussi che stanno saturando il sistema di accoglienza: 35mila persone arrivate da gennaio a oggi. Da qui la scelta di dichiarare lo stato di emergenza per sei mesi e di nominare un commissario chiamato a gestire la crisi sui territori e a potenziare le strutture.
Di fronte alla profonda crisi economica tunisina, l'Italia continua nella sua attività di mediazione per sbloccare il prestito da 1,9 miliardi del Fondo monetario internazionale. Da qui la visita ieri di Meloni, perché l'emergenza resta in cima alle preoccupazioni di Palazzo Chigi. E ora forse anche dell'Ue.
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