«Un mafioso irriducibile fino alla fine». È così che descrive Matteo Messina Denaro uno degli investigatori che gli è stato alle calcagne per otto dei suo trent'anni di latitanza. Il colonnello Lucio Arcidiacono, comandante del I Reparto Investigativo del Ros, è uno che conosce bene il capomafia di Castelvetrano e che da quando Messina Denaro è stato catturato, a gennaio, lavora senza sosta con i suoi uomini per scoprire i suoi segreti. Segreti che si è portato nella tomba: dal presunto archivio di Totò Riina, all'uomo destinato a raccogliere la sua eredità nel panorama mafioso. È stato lui uno dei primi ad avvicinarlo nella clinica di Palermo dove era in cura per il cancro al colon e dove è stato arrestato.
Colonello Arcidiacono, cosa cambierà in Cosa Nostra con la scomparsa di Messina Denaro?
«Cambierà l'assetto provinciale dell'articolazione trapanese, perché Cosa Nostra è un'organizzazione che ha portata regionale ed è Palermo-centrica. Messina Denaro era capo della provincia mafiosa trapanese, che ora avrà bisogno di un nuovo capo».
Chi sarà il suo erede?
«Qualcuno dovrà prendere il suo posto, ma su questo ci sono indagini in corso di cui non posso parlare. È un fenomeno, quello della successione, guardato con estremo interesse investigativo».
Per il sindaco di Campobello Mazara la sua morte dà un senso di definitiva liberazione di questa parte della Sicilia. È così?
«Purtroppo la Sicilia non si è certamente liberata di Cosa Nostra, che continua ad essere una delle organizzazioni mafiose più insidiose e che operano non solo sull'isola. Per estirpare questo male dal territorio sono necessari altri tipi di intervento, dalle fondamenta. E un ruolo importante dovrebbero averlo la scuola e le famiglie, dove avviene la formazione dei giovani».
C'è il rischio che in certe zone delle Sicilia la figura di un capomafia come Messina Denaro venga mitizzata?
«Il fatto di essere sfuggito alla cattura per 30 anni ha contribuito ad esaltarne l'immagine agli occhi dei suoi accoliti, ma con la sua cattura lo Stato ha fatto capire che non smetterà mai di cercare chi deve essere assicurato alla giustizia».
In questi mesi di carcerazione Messina Denaro non ha mai avuto un cedimento?
«Mai. Nell'interrogatorio del 13 febbraio ha detto addirittura di conoscere Cosa Nostra solo dai giornali e ha fatto dichiarazioni che non corrispondono all'esito delle investigazioni: non ha ucciso il piccolo Di Matteo, non ha commesso gli omicidi e le stragi di cui è accusato e con Provenzano ha avuto solo una corrispondenza occasionale perché erano entrambi latitanti, non perché mafiosi. Del resto lui sosteneva di non essere mafioso, ma di sentirsi solo un uomo d'onore nel senso letterale del termine».
Si è parlato di una possibile «resa» di Messina Denaro, ormai piegato dalla malattia...
«Non c'è stata alcuna resa, Messina Denaro è stato un mafioso irriducibile fino alla fine. Prova è data dalle attività svolte dopo la cattura: nei covi abbiamo trovato documentazione importantissima che è servita per arrestare altri fiancheggiatori, oltre alla sorella Rosalia».
È indagando sulla sorella che siete arrivati a lui?
«Grazie alle investigazioni abbiamo compreso che aveva un canale di comunicazione con Rosalia e sospettavano avesse un problema di salute, ma l'indagine è cambiata quando entrando in casa della sorella per piazzare una microspia abbiamo trovato un documento relativo allo stato di salute di un soggetto, senza indicazioni sul nome. Da lì sono partite le riservate verifiche sui database del servizio sanitario nazionale e siamo arrivati ad individuare il suo prestanome, Andrea Bonafede».
Come ha potuto vivere per tanti anni da latitante alla luce del sole?
«Ha goduto di un sistema di protezione nel suo territorio, come
tutti i grandi mafiosi. Molti favoreggiatori individuati a arrestati sono parte di una cerchia ristretta non coinvolti direttamente in attività criminali. All'apparenza persone normali, con lavori normali, insospettabili».
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