Luigi Einaudi, l'economista liberale con il pallino per il giornalismo

Nel 1948 per il Quirinale De Gasperi aveva puntato su Carlo Sforza, ministro degli Esteri, ma l'azione dei "franchi tiratori" vicini a Fanfani, esponente della corrente di sinistra della Dc, fece sfumare il piano. La scelta ricadde sul liberale Einaudi, uno dei padri della Repubblica

Luigi Einaudi, l'economista liberale con il pallino per il giornalismo

Intellettuale ed economista di fama internazionale, Luigi Einaudi è considerato uno dei padri della Repubblica. Secondo presidente, fu il primo eletto dal Parlamento riunito in seduta comune, come previsto dalla Costituzione. Carta che, come membro dell’Assemblea Costituente, contribuì a scrivere.

Fu eletto l’11 maggio 1948 alla quarta votazione, ottenendo 518 voti, contro i 320 di Vittorio Emanuele Orlando che aveva il sostegno dei partiti di sinistra. De Gasperi, capo del governo, avrebbe voluto Carlo Sforza, ministro degli Esteri, ma non riuscì a trovare i numeri necessari, dovendo poi convergere su Einaudi. Cosa che gli pesò non poco, visto che il capo del governo sapeva bene che non avrebbe più potuto contare sulla collaborazione del professore piemontese nella delicatissima gestione dei conti pubblici della neonata Repubblica, dopo la sua salita sul Colle.

L’elezione di Einaudi avvenne in un clima politico infiammato dalla rottura della vecchia coesione figlia dell’unità antifascista: ormai i tempi erano cambiati, con Pci e Psi estromessi dal governo e la guerra fredda che divideva il mondo in due blocchi contrapposti. Le elezioni Politiche del 18 aprile 1948 erano avvenute in un clima infuocato dallo scontro ideologico, con i due fronti contrapposti (blocco sovietico e Stati Uniti) pronti a darsi battaglia senza esclusione di colpi. Se Einaudi tutto sommato era stato scelto in un clima politico abbastanza sereno, con qualche divisione ma senza che vi fossero aspre battaglie ideologiche in corso, l’elezione del 1948 avvenne, per usare una metafora, su un vero e proprio campo di battaglia. Basti pensare che, poco prima, il segretario di Stato americano George Marshall aveva detto a chiare lettere che gli aiuti per l’Italia sarebbero stati congelati se le elezioni le avesse vinte il Fronte Popolare formato dall’alleanza Pci-Psi.

I candidati in lizza, nel 1948, erano diversi: oltre al presidente provvisorio e uscente, De Nicola, vi erano Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando (sostenuto dalle sinistre), Francesco Saverio Nitti e, come dicevamo prima, il nome forte voluto da De Gasperi, il ministro degli Esteri Sforza, sostenuto anche dai repubblicani. A far fallire il progetto del leader della Dc fu l’azione, per la prima volta nella storia della neonata Repubblica, dei “franchi tiratori”, organizzati da un giovane emergente leader della sinistra Dc, Amintore Fanfani. Fu lui, infatti, a rompere la disciplina di partita e ad organizzare una fronda che, di fatto, fece saltare l’elezione di Sforza. Più tardi, per i corsi e ricorsi della storia, da segretario della Dc Fanfani subì la stessa sorte, vedendosi stoppare l’elezione al Colle del presidente del Senato Cesare Merzagora.

Nato a Carrù (Cuneo) nel 1874, rimase orfano di padre a quattordici anni e si trasferì a Dogliani, paese della madre. Studiò dai padri Scopoli di Savona e poi si trasferì a Torino, dove si diplomò al Liceo classico. Si iscrisse a Giurisprudenza, iniziando a interessarsi con vivo interesse ai temi economici, politici e sociali. Iniziò a scrivere per Critica Sociale, la rivista fondata da Filippo Turati, andando avanti per circa dieci anni. Spostato su posizioni più vicine al liberismo economico, continuò poi a scrivere su La Stampa. Nel 1895 si laureò in Giurisprudenza, iniziò a insegnare alla scuola media e poi all’istituto tecnico, coltivando parallelamente la sua grande passione per il giornalismo. A solo 27 anni ottenne una cattedra di Scienza delle finanze all’università di Torino. Da La Stampa passò al Corriere della sera, dove continuò a collaborare finché rimase alla guida il direttore Albertini, allontanato dal fascismo. Tornò a scrivervi dopo la caduta del regime.

Nominato senatore del Regno, nel 1919, con Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe e altri intellettuali aderì al Gruppo Nazionale Liberale, che propugnava uno stato forte, con ampie autonomie regionali e comunali, in grado di combattere mali atavici quali la burocrazia e i protezionismi, oltre che a contrastare il “radicalismo democratico”. In quegli anni, inoltre, scrisse diversi articoli (poi raccolti in un volume) in cui propose una federazione europea.

Pur apprezzando le iniziali aperture del fascismo al mercato e ai privati (rispetto al dirigismo economico giolittiano), Einaudi si distaccò progressivamente dal governo mussoliniano, soprattutto per la deriva autoritaria. Firmò, nel 1925, il manifesto degli intellettuali antifascisti, scritto da Benedetto Croce, e pose fine alla sua collaborazione con il Corriere della sera, dopo l’allontanamento del direttore Albertini. In rotta con il regime, ascoltò il consiglio di Croce e, giurando fedeltà al regime, conservò la cattedra all’università di Torino, “per continuare il filo dell'insegnamento secondo l'idea di libertà”. Rimase tuttavia sempre contrario al fascismo, come dimostrato dai suoi voti al Senato: contro la lista unica elettorale (1928), contro l’ordine del giorno favorevole alla guerra in Etiopia e contro le leggi razziali (1938).

Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale Einaudi era stato vicepresidente del Consiglio, ministro del Tesoro e del Bilancio nel governo De Gasperi. Mentre tra il 1945 e il 1948 il Paese aveva affidato a lui l’onore e l’onere di guidare la Banca d’Italia.

Così come De Nicola anche Einaudi era un

monarchico. Nel referendum del 1946 si schierò apertamente per la corona, anche se ripetè sempre, con insistenza, che qualunque fosse stato il risultato gli italiani avrebbero dovuto accettarlo, in nome della democrazia.

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