Benny Casadei Lucchi
Il destino è bastardo di suo. Ma quando uccide o inchioda per sempre a una non vita chi per passione, sport e lavoro aveva sfidato la morte per anni, allora, è più bastardo ancora. Perché non sembra più cabala, roulette. Sembra una vendetta. Il regolamento di un conto in sospeso.
Una bastardata del destino ha ucciso Nicky Hayden. È morto ieri pomeriggio dopo sei giorni di agonia. Faccia da attore, sorriso che incanta, bravo figliolo direbbero le nostre mamme, e ottimo motociclista. Tredici anni in Motogp e tre vittorie. Due anni in Superbike e una vittoria. Non un campione, però. Anche se campione del mondo MotoGp lo era diventato nell'anno, il 2006, dei molti e troppi errori di Valentino Rossi. Nicky sulla Honda ufficiale, Vale sulla Yamaha dopo stagioni spese a far coppia proprio con l'americano. Per questo erano molto legati e per questo, all'indomani del terribile schianto in bicicletta contro la Peugeot di un poveretto che si porterà addosso per sempre il rimorso ma non la colpa visto che Hayden pare non aver rispettato uno stop, Rossi aveva speso per lui parole mai usate con tanta schiettezza per nessun altro: «Uno dei migliori amici avuti nel paddock. Ricordo il mondiale che lui vinse battendomi all'ultimo, ma soprattutto ho impresso il suo sguardo di supporto da dentro il casco quando, a Valencia nel 2015, persi il titolo... È uno dei pochi ricordi positivi di quel giorno».
Pensieri che nel motomondo si regalano con il contagocce anche nei momenti più drammatici, perché sul pianeta che corre a 300 all'ora e vive in piega, si vince e sopravvive solo se prima si è squali e magari poi, forse, amici. Parole e pensieri dedicati a una persona sempre corretta, un ottimo collega, un bravo figliolo 36enne del Kentucky e ultimo campione del mondo a stelle e strisce. La riprova ieri, subito dopo l'annuncio della sua scomparsa, quando il web è stato inondato dai messaggi degli altri piloti, da Max Biaggi («Mi mancherai») a Daniel Pedrosa («Sono distrutto»), da Marc Marquez («Non ti dimenticheremo mai») alla Ducati per cui aveva corso («Ci mancherai campione»). Un'ondata di affetto trasversale che parla da sola.
In molti, in questi giorni d'ansia e attesa, avevano istintivamente accostato il dramma di Nicky ad altre due tragedie: quella dello sfortunato Michele Scarponi, investito e ucciso da un furgone in aprile, e quella recentissima, addirittura di lunedì scorso, due giorni prima dell'incidente di Hayden, che aveva coinvolto la povera Julia Viellehner, campionessa tedesca di triathlon presa sotto da un camion mentre si stava allenando sulle stesse strade di Nicky. Assurda ironia della sorte, la ragazza è ancora ricoverata nello stesso ospedale del pilota americano e le sue condizioni si sono tinte di giallo: per l'allenatore è morta, ma l'ospedale Bufalini ha smentito. Di fatto, non c'è più speranza. A nulla è valsa l'amputazione di entrambe le gambe.
Tre sportivi uniti dal fottuto destino perché tutti traditi dalla bicicletta che per Nicky era un hobby e per Scarponi e la Viellehner lavoro e passione. Però è un altro il campione a cui Hayden va davvero accostato: Michael Schumacher. Il più vincente pilota della F1 le cui condizioni sono ancora avvolte nel mistero dopo la doppia operazione al cervello seguita a una banale caduta sugli sci a fine 2013. Sono uniti Hayden e Schumi. Ce lo dicono la morte dell'americano e la non vita del tedesco; la bicicletta per le vie della riviera adriatica e gli sci sulle montagne dell'Alta Savoia; i pedali e calzoncini corti e gli sci e scarponi. Ce lo dicono i luoghi in cui i loro drammi sono avvenuti: in mezzo ai turisti in bermuda della riviera Nicky e accanto a padri e figli in vacanza sulla neve Michael.
Soprattutto, ce lo dice la vita a mille all'ora affrontata e sconfitta per anni e la morte e la non vita che all'improvviso li ha rapiti per sempre. Come fossero gente comune. Perché il destino è bastardo. E a volte di più.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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