«Elia 200». Il nome del combattente italiano - accompagnato dal numero del codice militare russo che indica i caduti in battaglia - incomincia a circolare alle sei di ieri mattina sulle chat e sui telefonini di amici e compagni d'avventura. Per la piccola brigata d'italiani arruolatisi al fianco dei filo russi del Donbass la sua fine è un colpo al cuore.
«È morto uno dei migliori di noi - commenta un connazionale che conosceva Elia Putzolu sin da quando, appena 24enne, era arrivato da queste parti chiedendo di potersi arruolare -. Era il 2017 e lui aveva la faccia di un bravo ragazzo capitato per sbaglio in questo inferno. Abbiamo fatto di tutto per convincerlo a tornare indietro. Gli abbiamo spiegato che questa era una guerra brutta e terribile, ma lui non ha voluto sentir ragione. Ci spiegò che la sua passione era fare il militare e combattere per quello in cui credeva. Non credeva nel modello di vita europeo ed occidentale, detestava la globalizzazione e ammirava il sistema russo. Non era un militante politico, forse da giovanissimo aveva bazzicato per le sedi milanesi di qualche gruppo di destra, ma la politica non era certo la sua passione. A muoverlo era essenzialmente una scelta romantica. Continuò a ripetercelo per due giorni e alla fine riuscì a convincere le autorità locali ad arruolarlo».
Da quel momento, secondo le testimonianze, rigorosamente anonime, di chi condivideva con lui la prima linea dimostra una determinazione ed una decisione senza troppi uguali. «Dei morti si dice sempre il meglio, ma lui sinceramente era un vero guerriero. Il primo anno se lo fece tutto in uno dei battaglioni meno equipaggiati e più duri del Donetsk. Fu la sua prova del fuoco. Guadagnava meno di duecento euro al mese, come tutti qui al tempo, ma ci metteva una passione e un entusiasmo superiori a quelli di tanti militari del posto». Dopo dodici mesi passati nel fango delle trincee rischiando più volte la vita Elia realizza il suo sogno, il trasferimento nel battaglione considerato la forza d'elite della Repubblica indipendentista». Ma Elia - stando a quanto raccontano al Giornale i suoi compagni d'avventura oltre ad essere un combattente, è anche un ragazzo assai amato dalle ragazze del posto. «Quando tornava dal campo di battaglia ne faceva sempre innamorare qualcuna. Le ragazze del Donetsk impazzivano per lui. Un po' perché era bello e simpatico, un po' perché ammiravano la sua scelta». Dopo quattro anni sempre in prima linea arriva però l'epilogo. Così lo ricostruisce un altro amico che ha parlato con Elia solo 24 ore prima della morte. «Giovedì 13 lui e il suo reparto sono stati dispiegati sul fronte di Peski 24 chilometri a ovest di Donetsk . Avevano l'incarico di prendere le posizioni ucraine di Piervomaisk, da dove i mortai e gli obici ucraini bersagliano la capitale della Repubblica. Non appena arrivati hanno capito che la missione era molto dura. Solitamente lui e il suo battaglione venivano impiegati alla stregua di forze speciali, qui avevano l'ordine di guidare gli assalti e prendere a tutti i costi le posizioni nemiche. Nei primi due giorni di attacchi Elia si vede morire intorno molti compagni e intuisce che anche la sua ora è vicina. Mi chiama il 16 e mi dice sono qui a Peski, sono nelle stesse postazioni in cui combattevi anche tu ma stavolta non so se me la cavo. La battaglia è molto dura, abbiamo preso un terzo delle posizioni ucraine, ma abbiamo lasciato sul terreno tanti dei nostri. Oggi intorno a me sono morti in cinque. Domani potrebbe esser il mio turno».
In quelle parole c'è tutto il suo destino. «La mattina di domenica è tornato all'assalto e in sei non sono tornati indietro. Hanno impiegato un giorno per trovare il suo corpo e riportarlo nelle retrovie. Ora speriamo che riescano a farlo tornare a Milano. Sua madre manco sapeva che era venuto a combattere.
Lui non voleva farla stare in pensiero e le raccontava di aver trovato un lavoro vicino a Rostov. Ora purtroppo sa tutta la verità. Ma deve anche sapere che Elia è morto da guerriero. Combattendo per quello in cui credeva».
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