Due giorni dopo le elezioni-referendum che hanno gettato in faccia alla Cina e al mondo il rifiuto della popolazione di Hong Kong per la dominazione di Pechino e la falsità della propaganda di Xi Jinping che continua a parlare di minoranze ostili manipolate da forze straniere, la rivolta studentesca è ufficialmente conclusa. Gli uomini delle squadre di ricerca organizzate dal rettore d'intesa con la polizia sono finalmente entrati nel complesso del Politecnico. Ma in quello che per settimane era stato il fortino degli studenti democratici le ultime decine di oltranzisti che si immaginavano ancora asserragliati all'interno non c'erano più. In qualche modo erano riusciti a sgattaiolare fuori, beffando i poliziotti che intendevano arrestarli. Al loro posto hanno incontrato, sdraiata su un divano, una singola ragazza, una sorta di ultima giapponese nella giungla un po' smarrita alla quale hanno chiesto di lasciare l'università così da porre fine, una volta per sempre, alla rivolta studentesca. Ma la ragazza, che è maggiorenne e non è un'iscritta del Politecnico, ha rifiutato di consegnarsi e ha detto ai medici intervenuti per assisterla che intende rimanere dove si trova. Le ricerche a ogni buon conto proseguiranno anche oggi.
Nell'attuale situazione politica, tuttavia, le mosse degli studenti non rappresentano la principale preoccupazione delle autorità filocinesi di Hong Kong. Ben maggiore rilevanza ha avuto il nettissimo pronunciamento popolare attraverso il voto di domenica, il cui significato ora ci si affanna a ridimensionare. La governatrice della ex colonia britannica, Carrie Lam, è ricorsa alla sua inesauribile fantasia linguistica per dichiarare che il risultato trionfale degli oppositori del suo esecutivo ha «segnalato infelicità nei confronti del governo»: è più o meno tutto ciò che le è consentito dire, mentre a Pechino usano un linguaggio meno fiorito e ricordano che Hong Kong «resterà comunque cinese per sempre». In attesa di conoscere cosa si inventeranno i dirigenti comunisti per giustificare il fatto che l'opposizione di Hong Kong abbia conquistato il 90 per cento dei seggi, il governo cinese è concentrato contro quella che considera con ragione la più temibile minaccia del momento nella partita per il controllo della metropoli finanziaria: la legge votata dal Congresso americano che esprime sostegno alle rivendicazioni democratiche degli hongkonghesi. L'ambasciatore statunitense a Pechino è stato convocato al ministero degli Esteri dove gli è stato ripetuto che la Cina si aspetta che il presidente Trump non promulghi la legge con la sua firma.
A Pechino temono le sanzioni che in base alla nuova norma colpirebbero funzionari cinesi e di Hong Kong che si ritiene violino la Legge Base che regola i rapporti tra la Cina e la ex colonia. E sperano proprio in Trump, che anche ieri ha usato un linguaggio ambiguo dicendo di «stare coi manifestanti» ma di contare sulla volontà di Xi di risolvere la situazione.
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