Destini incrociati. Chi lo avrebbe mai detto che alla fine a intrecciarsi sarebbero state proprio le sorti di Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede. Il professore e l'allievo, l'avvocato e l'avvocato che lo ha presentato in società. O meglio, lo ha presentato a Luigi Di Maio. Perché Conte, sebbene dietro le quinte, un suo ruolo sociale e i suoi sponsor li aveva già.
È ormai pomeriggio quando Vito Crimi convoca la folta pattuglia dei parlamentari pentastellati in un vertice volto a stemperare la tensione di un pomeriggio di incertezza e timori. Appuntamento che viene poi rinviato in parallelo alla visita di Conte al Quirinale. L'imperativo, di fronte alla caduta di un premier che la propaganda governativa dava come intramontabile, è mandare un messaggio forte, soprattutto in direzione del Colle. Non a caso riunioni in contemporanea producono messaggi in fotocopia anche da parte di Leu e Pd.
Serrare le fila, ingoiare i malumori per «questa crisi scellerata», come la definiscono i capigruppo pentastellati Davide Crippa ed Ettore Licheri, e puntare dritti «sull'unico sbocco»: il Conte ter. Almeno ufficialmente.
Dietro alla linea ufficiale ci sono i timori espressi in chiaro nelle chat interne. Deputati e senatori in maggioranza non vogliono avventurismi: i leader possono permettersi di immaginare un futuro dopo le urne. Per i peones sono le colonne d'Ercole. Ecco perché chiedono di non fare nessuna barricata per difendere i destini personali di questo o quel ministro. Parla in chiaro solo un outsider come Andrea Colletti: «Bonafede ha fatto poco e qualcosa è stato fatto anche male - dice il deputato abruzzese - La politica legislativa del ministro è in mano ai burocrati». Colletti di solito è voce isolata, ma stavolta si fa interprete delle preoccupazioni di molti. «Per me il grande errore di Bonafede - spiega - è stato affidarsi ai magistrati del suo ministero e poco ai parlamentari: le Commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno lavorato pochissimo». E anche chi evita critiche personali, mette in chiaro un concetto: «Se è il problema è la prescrizione -dice una deputata grillina della prima ora- per quanto importante, bisogna tenere presente che le barricate si fanno sul Recovery plan. Una crisi sulla prescrizione sarebbe compresa ancor meno delle motivazioni di Renzi».
C'è chi osserva che Conte per evitare di bruciare Bonafede, ha tirato troppo la corda e ora arriva al momento decisivo logorato dal lungo weekend di incertezza in cui è apparso asserragliato a Palazzo Chigi.
Resta il fatto che le altre ipotesi rimaste sul tavolo, in particolare quella dell'unità nazionale, appaiono ai grillini davvero poco desiderabili. Luigi Di Maio ieri smentiva il retroscena del Giornale sulle sue tentazioni di fare le scarpe a Conte, peraltro riportate anche da Repubblica e Corriere, ma è evidente che se nessuno vuole impiccarsi al destino di Bonafede, altrettanto vale per l'avvocato del popolo. Al momento però, il Conte Ter è visto dai vertici grillini come l'unica possibilità per evitare di mandare in frantumi i fragili e compositi equilibri interni del Movimento. Con Conte non è, o perlomeno non è più, matrimonio d'amore, ma di convenienza, anche se a uscire allo scoperto ci sono solo gli ex pentastellati di «Italexit», il gruppo formato da Paragone, Giarrusso e Martelli che ha detto un chiaro no a Conte.
Il M5s è
pronto a mandare giù Mastella, Tabacci e perfino Renzi, a sacrificare Bonafede e ridiscutere tutti i ministri. Ma al momento non ha pronta un'alternativa a Conte che tenga insieme tutte le anime travagliate del Movimento.
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