Comunque vada, per i Cinque Stelle non sarà un successo. Per gli altri partiti, il risultato del ballottaggio di oggi segnerà uno spartiacque: per Enrico Letta, il 5 a 1 gli tirerebbe la volata per eleggere Mario Draghi al Quirinale e poi presentarsi come candidato premier ad elezioni anticipate. Per il centrodestra vincere almeno Torino e Trieste sarebbe un ricostituente dopo la batosta del primo turno. Per Giorgia Meloni, una sconfitta del suo Michetti a Roma segnerebbe la fine dei sogni di gloria. Per Giuseppe Conte (nel tondo) e il suo confusissimo partito cambierà invece poco o nulla, visto che la catastrofe si è già compiuta. All'ex premier non resta che far i voti perché il Pd vinca, e acconciarsi a fare il junior partner di Letta, con ruolo ancillare. «Ormai siamo ridotti sullo stesso piano di Leu», sospirano in molti.
Certo, se gli elettori grillini di Roma e Torino seguissero compatti le indicazioni di voto pro centrodestra che le sindache uscenti, travolte dalla sconfitta, hanno dato tramite i propri docili mariti, il centrodestra vincerebbe: il pacchetto di voti M5s consta del 19% nella Capitale e del 9% nel capoluogo piemontese. «Dopo cinque anni di insulti, sgambetti, bugie e attacchi a Virginia da parte del Pd, io ho scelto. Se fossi vendicativo direi di andare a votare per Michetti», ha scritto su Facebook il loquace marito della Raggi. Mentre quello della Appendino ha fatto sapere che voterà «con convinzione» per Damilano, contro il dem Lorusso con cui la ex sindaca Appendino ha il dente avvelenato perché (a differenza del Pd romano con Raggi) le ha fatto una opposizione assai dura.
Ma nonostante il desiderio di diversi esponenti grillini di indebolire Conte e la sua strategia di alleanza totale col Pd, o nonostante la naturale propensione verso destra di buona parte di loro, è assai difficile che i loro elettori, incassata la batosta al primo turno, siano così motivati da muoversi in massa per andare a votare anche al secondo, e solo per far dispetto all'ex premier in disarmo. Peraltro anche il timido endorsement «a titolo personale» di Conte per Gualtieri (endorsement interessato, malignano in molti, visto che c'è in palio uno scranno parlamentare che il potenziale sindaco lascerebbe libero cui l'ex premier ambisce) difficilmente avrà un ruolo decisivo, a differenza di quello di Carlo Calenda.
Ergo, i Cinque Stelle con ogni probabilità non saranno determinanti ai ballottaggi, esattamente come non lo sono stati due settimane fa per le vittorie del centrosinistra: a Napoli, dove sostenevano il dem Manfredi e dove i big, Conte in testa, sono accorsi a celebrarne il trionfo, M5s ha preso il 9,7%. Senza, Manfredi avrebbe vinto lo stesso. A Bologna, dove sponsorizzavano Lepore, hanno avuto appena il 3,3%. Ininfluente. A Milano, poi, da soli sono precipitati sotto il quorum. Si capisce dunque perché Conte e il grosso dello stato maggiore punti tutto sull'alleanza con i dem: è l'unica speranza - con l'attuale legge elettorale - di poter tornare in Parlamento, e magari al governo, arginando le perdite.
Resta da vedere che contraccolpi avrà la depressione post-voto (finora arginata dall'imminenza dei ballottaggi) sul nuovo leader dei grillini, che dovrà subito affrontare prove difficili, a cominciare dalla designazione dei nuovi capigruppo. Partita cruciale in vista dell'elezione del successore di Mattarella, se l'ex premier vuole avere influenza sui suoi gruppi.
Al Senato Conte vorrebbe
confermare il fido Licheri, ma alla Camera la sua ambizione è di sostituire l'uscente Crippa con un altro suo pupillo rimasto disoccupato, il famigerato ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma Beppe Grillo si è già messo di traverso.
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