Il male assoluto non ha colore

Ieri, in prima pagina, la notizia di un uomo ammazzato a bastonate mentre, da ambulante, cercava di vendere ai passanti qualche piccola cosa.

Il male assoluto non ha colore

L'altro ieri in prima pagina de «Il Giornale» c'era la notizia di un cane ammazzato a fucilate in provincia di Foggia; non faceva male a nessuno, lo chiamavano «il cane di Padre Pio» perché a San Giovanni Rotondo, dove si trova il santuario dedicato al prete di Pietrelcina, si avvicinava ai pellegrini, quasi accompagnandoli al Convento dei Cappuccini.

Ieri, in prima pagina, la notizia di un uomo ammazzato a bastonate mentre, da ambulante, cercava di vendere ai passanti qualche piccola cosa.

Un uomo non è un cane, ma la crudeltà che li ha ammazzati è la stessa. Una crudeltà che si esprime con la violenza più bieca, quella che uccide. Talvolta con abili o ipocriti esercizi retorici giustifichiamo la violenza come una condizione di necessità per difenderci dal sopruso. Ma nessuna retorica riuscirà a giustificare la crudeltà, perché sarebbe come ammettere che il sentimento dell'amore ha un valore inferiore all'essere crudele.

La crudeltà è subdola, ubiqua, mostra le sue innumerevoli forme, dalle sofisticate tecnologie degli armamenti, agli stupri, alle esecuzioni di massa, al piacere di sopraffare il più debole. Ci indigniamo degli atti violenti provocati dalla crudeltà dell'uomo, come se quell'uomo non appartenesse a quello stesso nostro genere che si mostra impotente di fronte alla violenza. Il male non è banale, come scriveva Hannah Arendt, osservando quel piccolo uomo, Adolf Eichmann, che ascoltava impassibile le accuse del tragico sterminio di ebrei, di cui era responsabile. Eichmann poteva apparire un uomo insignificante, banale, ma nel suo agire non c'era banalità, ma un'immane crudeltà.

Di fronte alla violenza ci indigniamo e puntiamo il dito contro l'altro, perché l'altro è il violentatore, sempre l'altro: noi ci indigniamo, e così siamo salvi. Ci indigniamo per il fatto che nessuno si è messo di mezzo per cercare di aiutare quel povero nigeriano mezzo zoppo che vendeva fazzoletti di carta. E intanto fiorisce la speculazione politica che trova spazio tra tanta ipocrisia e stupida propaganda. In realtà non ci si guarda dentro, si cerca di salvare se stessi da quella crudeltà che drammaticamente ci appartiene come un principio costitutivo dell'esperienza umana. Si possono trovare mille motivi per spiegare (non necessariamente giustificare) l'aggressione omicida verso il venditore ambulante nigeriano, e altrettanti motivi per l'uccisione di quel povero cane di San Giovanni Rotondo. Argomenti del tutto inutili: perché, in questo caso sì, la loro colpa è banale. Davano fastidio. Alla banalità di questa colpa si è contrapposta la crudeltà del male: bastava dire al venditore ambulante di andarsene; al cane dargli una pacca sul sedere (era buono, non aveva mai fatto male a nessuno) per mandarlo via. Invece esce prepotente, inarrestabile il piacere di fare del male, di aggredire oltre ogni limite del buon senso.

Il rimedio? È sempre lo stesso: comprendere la fragilità dell'amore, non pensandolo come un'invincibile potenza contro la crudeltà del male.

Educare alla bellezza, insegnare a riconoscere la bellezza: questo è davvero un impegno politico. Essere responsabili della bellezza del mondo, saperla proteggere, saperla difendere, saperla creare. Dove c'è bellezza, il male arretra, non è sconfitto, ma trova un antagonista difficile da sopraffare.

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