La maledizione di Gerusalemme

Ci sono già stati troppi feriti fra i palestinesi e fra le forze dell'ordine d'Israele e adesso Israele piazza tremila poliziotti nei punti strategici, con strettissimi ordini di tenere la quiete ed evitare gli scontri

La maledizione  di Gerusalemme

Oggi, dopo questi ultimi giorni di scoppi sempre sull'orlo di un'esplosione, la micidiale miscela della fine del Ramadan, festa musulmana fondamentale, insieme al Giorno di Gerusalemme, festa cantata, amata, danzata per le strade dal popolo ebraico finalmente tornato a casa, richiede molto buon senso da ogni parte perché non finisca nel sangue. Ci sono già stati troppi feriti fra i palestinesi e fra le forze dell'ordine d'Israele e adesso Israele piazza tremila poliziotti nei punti strategici, con strettissimi ordini di tenere la quiete ed evitare gli scontri.

Ieri è stato un giorno relativamente calmo, ma domani? Si deve consentire di salire alla spianata del Tempio su cui oggi sorgono le Moschee agli ebrei che vogliano pregare dove un tempo sorgeva il Santuario su cui si è costruita la loro civiltà? Si deve lasciare che sventolino le bandiere bianche e azzurre per strada? E in quali strade? E in quali vicoli della Città Vecchia ogni fiume di passione deve scorrere? E i giovani islamici, anche quelli che con le vesti, le urla, gli slogan che annunciano «morte agli ebrei» e che la «prossima tappa è Tel Aviv» devono veder conservato il loro diritto religioso di salire sulla Spianata di Al Aqsa? O occorre bloccare gli estremi, sfidarli fino al lancio delle pietre sul Muro del Pianto che può finire negli spari, rischiare una strage di poliziotti, come è già successo a Netanyahu, e una rovina di vite arabe?

Nessuno lo vuole, ma il margine in questa direzione è di millimetri. Il 22 aprile uno scontro alla Porta di Damasco ha aperto le danze, religiosi ebrei sono stati aggrediti per strada, Hamas ha proclamato che le Moschee sono minacciate, il sito di Fatah ha rilanciato il clima di guerra invitando i «giovani martiri» a «colpire l'obiettivo». E purtroppo è stato colpito: a una fermata dell'autobus nei Territori tre ragazzi di 19 anni sono stati colpiti da un finestrino di un'auto, uno è morto per le ferite, l'altro è in fin di vita.

E poi ci sono stati altri due attacchi terroristi, mentre da Gaza piovono i palloni incendiari, il fuoco di Hamas mangia i campi coltivati e lambisce le case. Se non cessa, sarà guerra a Gaza, la gente del sud non ne può più. E Gerusalemme è l'agone più eccitante, qui i Palestinesi si giocano la carta migliore, quella per cui Erdogan si sbraccia dalla Turchia, memore dei bei tempi quando la capitale del popolo ebraico era parte dell'Impero Ottomano, e chiama di ebrei «terroristi senza pietà». Khamenei, fa il suo «giorno di Gerusalemme» e dice che Israele non è un Paese, è un rifiuto della storia, e si sa che ci penserà l'Iran a distruggerlo. E non finisce qui: la vicenda del quartiere di Shech Jarra immediatamente viene acquisito dall'Ue come dagli Stati Uniti, che subito rimproverano Israele, nella narrativa araba. Ma fino all'occupazione giordana che compi nel 1948 una pulizia etnica degli ebrei del quartiere yemenita ebraico di Shimon ha Zadik il Santo Simone, e assegnò le case a palestinesi, erano gli ebrei che avevano sempre abitato là; 67 le famiglie d'origine le rivendicano.

La verità è che Gerusalemme è troppo ricca. È dal 1967, da quando Israele l'ha unificata, che la capitale d'Israele cerca di disegnare il tessuto di una metropoli bella e ordinata, con cittadini con uguali diritti ma anche uguali doveri, ferma restando l'esistenza di un status quo che sancisce la grande presenza araba e quella cristiana. Ma il conflitto è un'arma troppo ghiotta perché possa essere lasciata a riposo a lungo.

Era la risorsa preferita di Arafat, oggi è quella di punta di Hamas e quella di riserva del vecchio Abu Mazen. Per ora se la giocano con cautela, dopotutto Biden è arrivato da poco. Lo sport di biasimare Israele deve ancora scaldarsi.

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