A tre anni di distanza, le istituzioni applaudono «lo sforzo immane» di medici e infermieri durante la pandemia. Per mesi non hanno conosciuto pace, si sono spesi in tripli turni, in notti in corsia intervallate solo da pisolini con la testa appoggiata alla scrivania. Hanno messo-tolto-buttato chissà quanti camici usa e getta, hanno organizzato videochiamate tra i pazienti terminali in terapia intensiva e i loro parenti. Troppo spesso per l'ultimo saluto. E ora? Ora che tutto è passato, che con il Covid siamo arrivati a una pacifica convivenza, tutti i sanitari dovrebbero essere tornati a lavorare come sempre. Sì, se fossimo in un film hollywoodiano con lieto fine. E invece.
Invece hanno più guai di prima. Solo che tre anni fa erano i nostri eroi, quelli che tutti abbiamo applaudito dai balconi delle case per quegli storici due minuti di condivisione. Ora sono ripiombati nel silenzio. E dei loro doppi turni non ci importa più. O almeno, non ci importa fino a quando non siamo noi a dover essere curati e a doverci imbattere in liste d'attesa di mesi per un esame, in infermieri chiamati con il campanello a fianco del letto ma che non arrivano mai, in attese disumane al pronto soccorso perchè i medici sono scappati.
I problemi della sanità non si sono risolti da soli. Anzi, la sanità paga ancora l'onda lunga dei pazienti (in particolare oncologici e cardiaci) che hanno trascurato la prevenzione negli anni della pandemia. E poi ci sono le aggressioni - sempre più frequenti - nei pronto soccorsi, i medici a gettone, gli stipendi sproporzionati, la carenza di personale: per allinearsi al livello di altri Paesi europei di riferimento, in Italia mancano all'appello 30mila medici e 250mila infermieri. Per colmare questa carenza, il nostro Paese - secondo il rapporto del centro per la ricerca economica applicata in sanità Crea - dovrebbe investire 30,5 miliardi di euro, tenendo conto del maggiore bisogno di personale sanitario a causa dell'età media più alta della popolazione italiana.
«Dare il massimo valore possibile al Servizio sanitario nazionale è la lezione più importante che il Covid ci lascia. E, per farlo, è fondamentale investire sul capitale umano del Ssn, rendendo la sanità pubblica più attrattiva» sprona Filippo Anelli, presidente della federazione degli Ordini dei medici. «Siamo ancora una volta qui - interviene Anelli durante le celebrazioni delle vittime da Covid - come professionisti, a rivendicare quel ruolo essenziale. Lo facciamo perché il sistema non ha dato dimostrazione di aver imparato dal passato. Sono ancora poche le risorse impegnate sui professionisti, e quella svolta che tutti avevamo chiesto non si è ancora realizzata. Abbiamo bisogno di un Ssn che punti sui professionisti, che dia più forza alle professioni sanitarie, perché solo attraverso un lavoro in team, un lavoro multiprofessionale si riesce oggi a garantire quel diritto alla salute che i cittadini invocano come necessario e che oggi è, sembra essere, in discussione in questo paese. Noi quel sogno di un Servizio sanitario universalistico equo e solidale vogliamo mantenerlo, vogliamo che quella realizzazione sia ancora oggi valida per le future generazioni».
Anche gli infermieri, ex eroi del 2020, devono alzare la voce per rivendicare una miglior qualità del lavoro. «Investire, una volta per tutte, nello straordinario capitale umano che abbiamo a disposizione è l'unica e sola strada da percorrere per voltare davvero pagina», costruendo «un sistema sanitario finalmente degno di tal nome, mettendo nella condizione, una volta per tutte, gli operatori sanitari, di essere il perno di una sanità dove le competenze che rappresentiamo non rimangano tristemente nell'ombra della mediocrità» insorge Antonio De Palma, presidente del sindacato degli infermieri Nursing Up.
La mediocrità di cui parla si riferisce «alle retribuzioni tra le più basse d'Europa, a una carenza di personale che si acuirà nel tempo e che va arginata con piani risolutivi prima che ricada in maniera distruttiva sulla qualità delle prestazioni sanitarie, alle violenze fisiche e psicologiche consumate negli ospedali ogni giorno, a una valorizzazione che non sia più solo una parola di cui riempirsi la bocca nei momenti celebrativi».
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