Mance a tutti e tempi dilatati. Così il dl Rilancio truffa il Nord

Settentrione penalizzato dalla profusione di sussidi Imprese dimenticate. Meloni (Fdi): "È un dl Marchette"

Mance a tutti e tempi dilatati. Così il dl Rilancio truffa il Nord

Affermare che 55 miliardi di euro siano una cifra minima o insufficiente per fronteggiare le devastazioni economiche prodotte da circa tre mesi di lockdown sarebbe quantomeno avventato. La diffusa percezione negativa degli effetti che produrrà il decreto Rilancio, tuttavia, non è obnubilata dai pregiudizi perché sicuramente un ammontare così imponente, corrispondente a quasi due leggi di Bilancio, avrebbe potuto essere ripartito meglio e con maggiore efficienza. Cerchiamo di spiegare perché.

NORD PENALIZZATO

Non è il caso di pigiare l'acceleratore sul campanilismo, ma se il premier Giuseppe Conte, presentando il dl, ha evidenziato che si distribuiscono «25,6 miliardi per i lavoratori e 15-16 miliardi per le aziende», è pacifico che tra sussidi vari, redditi di emergenza ed estensioni del reddito di cittadinanza (senza contare la sanatoria degli immigrati irregolari da impiegare come braccianti agricoli) la bilancia penda più dalla parte del Mezzogiorno. Ossia l'area del Paese nella quale l'asse Pd-M5s conta di difendere la «ridotta» appulo-campana alle prossime regionali. La parte più produttiva del Paese non può sentirsi particolarmente rinfrancata se si considera che i finanziamenti a fondo perduto per le imprese e le partite Iva penalizzate dalle chiusure prevedono procedure non semplici per l'erogazione, che non ci sono certezze sull'erogazione della cassa integrazione anche se l'Inps ha assicurato l'anticipo del 40% in automatico a giugno. Non bisogna, inoltre, trascurare che i professionisti (dislocati in maggioranza al Nord) sono stati esclusi dai finanziamenti a fondo perduto e che per questo motivo commercialisti e consulenti del lavoro diserteranno il tavolo con l'Agenzia delle Entrate. Renato Caon, deputato di Forza Italia (un partito non certo secessionista) aveva lamentato che l'aumento del credito d'imposta dal 15 al 25% per gli investimenti in innovazione è stato previsto solo per il Mezzogiorno, mentre i Comuni dell'ex zona rossa del Veneto sono stati esclusi dai fondi per gli enti maggiormente danneggiati. Insomma, la parte del Paese che paga più tasse è quella che riceve di meno.

TEMPI LUNGHI

«Con un decreto di questo tipo che contiene tanti provvedimenti si mettono in piedi processi burocratici che portano ad altri ritardi», ha dichiarato ad Affaritaliani l'ex ministro dell'Economia, Giovanni Tria aggiungendo che «è molto probabile che il Parlamento impiegherà tutti i 60 giorni per la conversione in legge: arriveremo a fine luglio e poi ci saranno anche i tempi per attivare le procedure, un meccanismo molto lungo». Basti pensare che visti il profluvio di audizioni e la necessità di votare gli emendamenti in commissione, è probabile che il dl arrivi in Aula a Montecitorio sabato 20 giugno per il voto in prima lettura, cioè oltre un mese dopo il suo annuncio. C'è da mettersi le mani nei capelli se si pensa che il futuro dl Semplificazione avrà lo stesso iter, per cui le opere pubbliche continueranno ad aspettare.

LE SOLITE «MARCHETTE»

«Se si volesse davvero rilanciare l'Italia per prima cosa bisognerebbe semplificare, altro che un decreto di 500 pagine e altrettanti cavilli», ha detto ieri la leader di Fdi, Giorgia Meloni attaccando l'esecutivo. «Ci avete messo marchette, cose che non hanno nulla a che fare con la situazione in cui ci troviamo», ha aggiunto.

Effettivamente il dl pullula di micromisure poco attinenti come i 20 milioni per il Centro di ricerca automotive di Torino, i 40 milioni per il Tecnopolo di Bologna, i 150 milioni per il trasporto pubblico a Taranto. Nonché il rinnovo al 2021 della convenzione Tirrenia per i collegamenti con le isole.

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