Ci sono voluti tredici anni e passa, ma alla fine la Siria è tornata ad essere un protettorato turco. E il progetto del neo-ottomanesimo accarezzato dal presidente Recep Tayyp Erdogan fin dai primi anni di potere è diventato realtà. In tutto ciò quel che più stupisce è la miopia con cui l'Unione Europea si sta prestando ad avallare l'espansionismo di Ankara.
Spedendo a Damasco il ministro degli esteri tedesco Annalena Baerbock e l'omologo francese Jean-Noël Barrot l'Ue - non solo legittima il nascente regime dell'ex leader di Al Qaida Ahmad al-Sharaa (alias Abu Mohammed Al Jolani) - ma avalla anche i disegni di Erdogan. Quei disegni, iniziati con l'operazione che ha portato al-Sharaa a Damasco, prevedono ora il ritorno dei territori siriani al ruolo di provincia ricoperto durante l'impero Ottomano.
Per capire quali siano questi piani - a partire dal ruolo dei cristiani e delle altre minoranze - bastano le più recenti dichiarazioni del presidente Erdogan e dei suoi ministri. Solo tre giorni fa il ministro degli esteri turco Hakan Fidana ha invitato le minoranze «alawite, yazide e cristiane» a guardare alla Turchia come «pastore e protettore». Come dire che la loro sorte non si deciderà a Damasco, ma ad Ankara. Avvertimenti che cozzano con l'ottimismo del vicario della Custodia di Terra Santa Ibrahim Faltas, pronto a riferire di un incontro con Al Jolani in cui l'ex di Al Qaida avrebbe definito i cristiani «parte integrante e importante della storia del popolo siriano». Significativo notare, tra l'altro, come tra le minoranze menzionate da Fidana non vi sia quella curda.
Per i curdi valgono, evidentemente, le parole pronunciate da Erdogan lo scorso 25 dicembre. «I combattenti curdi in Siria - ha spiegato il presidente - devono decidere se deporre le armi o venir sepolti in Siria assieme a quelle stesse armi». Parole a cui stanno per seguire i fatti. Ankara, secondo alcune fonti saudite, si preparerebbe a comunicare ad Al Jolani i piani per l'apertura di varie basi militari ad Homs e nella stessa Damasco.
Le indiscrezioni saudite sono confermate indirettamente dal giornalista turco Ibrahim Karagul - ex direttore del quotidiano filo governativo Yeni Safak - che riferisce di intensi colloqui per «la ricostruzione delle forze armate siriane, l'apertura di basi militari a Damasco e Homs, la difesa dello spazio aereo siriano e la costruzione di una base a nella regione di Tartus Latakya». Ankara, insomma, si sarebbe già assegnata il compito di formare l'esercito della Siria e provvedere alla sua difesa aerea e navale.
Ma la presenza militare nel nuovo protettorato ha soprattutto obiettivi strategici. Il primo è contenere l'attività dei militanti curdi e sfruttare la presenza in Siria per stringerli in una morsa letale. Il secondo è contrapporsi ad Israele. Lo stato ebraico subito dopo la caduta del regime di Assad ha occupato un'ampia fetta delle alture del Golan affidata in passato al controllo dell'Onu. Con la propria presenza militare la Turchia rivendica ora un preciso ruolo di deterrenza.
«Non possiamo tollerare che Israele sfrutti la situazione per occupare le terre siriane - ha detto il ministro Fidan durante la recente visita a Damasco - deve rispettare la sovranità siriana e la sua integrità territoriale senza esporre la sicurezza regionale a ulteriori rischi».
Insomma, se in passato
la Siria era il terreno di scontro tra Israele e l'Iran ora rischia di diventare quello tra lo Stato Ebraico e la Turchia. Un futuro non esattamente rassicurante. Su cui l'Unione Europea non sembra aver ancora riflettuto.
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