On. Mario Segni, perché ha sentito il desiderio di indagare sui fatti del 1964?
“Prima di tutto c’è una spinta personale, vorrei dire familiare. Il 1964 ha un imputato principale che è Antonio Segni. Nel momento in cui nasce lo scoop, mio padre è ormai dimissionario. Aveva lasciato la presidenza della Repubblica, gravemente ammalato, ma è il grande accusato di essere stato autore di una manovra eversiva per cambiare o liquidare il centro-sinistra utilizzando il principale corpo armato dello Stato, i Carabinieri guidati dal generale De Lorenzo”.
La politica economica del centro-sinistra impensieriva comunque le alte sfere istituzionali. Penso anche a Carli e Colombo.
“La crisi economica del ‘64 è stata raccontata dalla storiografia di sinistra come una bagatella. È falso, fu una crisi gravissima dovuta agli errori del primo centro-sinistra. La reazione più forte venne da Carli, governatore della Banca d'Italia. Racconta Giolitti, ministro del Bilancio, che Carli andò a trovarlo e gli portò due banconote da 50 miliardi di marchi (il culmine della terribile inflazione tedesca del ‘32) e gli disse: “Se non cambi politica finiremo così”.
Quando scoppia esattamente lo scandalo?
“Nel 1967 con lo scoop di Jannuzzi sull’Espresso di Scalfari e che non dimentichiamo è una campagna vincente perché nonostante i pronunciamenti contrari, ha largamente vinto nei libri di storia”.
Jannuzzi racconta nel suo articolo di un duro scontro al Quirinale tra Segni, Saragat e Moro in cui si sarebbero sentite forti urla.
“Io non so come Jannuzzi abbia sentito quelle urla. Piccolo particolare. Dalla stanza in cui si svolgevano i colloqui del capo dello Stato al punto del corazziere - perché Jannuzzi riporta che fu un corazziere a sentirle - ci sono varie stanze con quattro porte massicce tutte chiuse. È un elemento folcloristico di una campagna mediatica fatta con mistificazioni e invenzioni. Tanto è vero che io ho scritto che questa è una gigantesca fake news. È vero che c’era un ordine del giorno in cui si profilavano forti divergenze tra Segni e Saragat e quindi certamente il colloquio fu agitato. Sia Segni che Saragat avevano temperamenti focosi… Saragat era un tipo sanguigno. Io tuttavia ricordo che il giorno dopo l’ictus venne Saragat a trovarci emozionatissimo, quasi sconvolto da quello che era successo e ci disse: “Pensate, eppure ho un caratteraccio, che quel giorno sono stato veramente tranquillo. Infatti Moro mi aveva chiesto come mai fossi così… e io risposi perché avevo l’impressione che non stesse bene”.
La figura del generale De Lorenzo?
“Io sono convinto che lui sia stato veramente la vittima più maltrattata. Lui è stato dipinto come il generale golpista che ambiva al potere e che è assolutamente falso. Non era pensabile che un generale dei Carabinieri potesse fare una cosa del genere da solo. Tra l’altro De Lorenzo due anni dopo viene nominato Capo di stato maggiore dell’Esercito Italiano dagli uomini politici che secondo il racconto scalfariano lui avrebbe messo in pericolo… come Moro presidente del Consiglio e Saragat della Repubblica. Una cosa totalmente assurda. È un’accusa assolutamente ingiustificata. De Lorenzo merita la riabilitazione piena”.
Al di là della vicenda Segni-De Lorenzo, qual era il rapporto tra mondo politico e militare?
“È sempre stato un rapporto corretto, tra due mondi diversi e distanti, che si sono sempre rispettati”.
Nonostante gli ostacoli verso il centro-sinistra, la crisi politica del ’64 ha un vincitore: l’asse Moro-Nenni.
“È proprio così: sono riusciti a salvare il centro-sinistra e sono diventati più forti nei rispettivi partiti. L’Espresso li ha dipinti come vittime, in realtà furono i veri vincitori”.
Mentre gli sconfitti furono Carli e Merzagora.
“Sì, dipinti dall' Espresso come eversori, vecchio vizio della sinistra. Merzagora non proponeva un golpe, lavorava per un governo di tecnici, come ne sono stati fatti tanti. Carli proponeva un rigore sacrosanto. Purtroppo non fu ascoltato; solo più tardi la forza delle cose impose al governo di cambiare linea”.
Segni e De Lorenzo temevano la presa del potere da parte del PCI? Erano a conoscenza della “gladio rossa”?
“Certamente c’era una forte attenzione all’ordine pubblico e alla forza armata del PCI. Ma tutto quello che è stato scoperto con la caduta del muro di Berlino non era conosciuto. I particolari sulla “gladio rossa” non erano noti, però c’era la percezione di una forte presenza armata comunista. La scoperta da parte del ministro dell’Interno Scelba di un importante deposito di armi riconducibile al segretario del PCI di Forlì ne è un esempio. E nel ‘48 dopo l'attentato a Togliatti e nel ‘60 durante la crisi Tambroni fu questo apparato a organizzare giganteschi moti di piazza”.
Quanto ha pesato nello sviluppo della democrazia italiana la presenza del più forte partito comunista d’Occidente?
“Moltissimo. Sia per quanto riguarda la storia della DC, sia per quella dell’Italia. La politica italiana dei primi decenni è tutta rapportata alla posizione del PCI, chi è favorevole e chi è contrario. In questa contrapposizione c’erano anche degli effetti benefici. Cioè l’Italia ha una stagione in cui c’è un vero bipolarismo, ci sono certo altri partiti, ma la scelta è tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista. C’è un “bipartitismo imperfetto”; tanto imperfetto che non c’era alternanza. Quando è crollato il comunismo internazionale è finita anche la motivazione della DC come diga anticomunista. Ma la cosa sui cui bisogna focalizzarci è che il PCI ha avuto tra le sue capacità quello di scrivere la storia italiana. Normalmente la storia la scrivono i vincitori, mentre la storia della Repubblica italiana è stata scritta dai vinti. La DC ha vinto le elezioni del ’48 ma la storia italiana è stata scritta da PCI”.
Antonio Segni fu più un uomo di partito o delle istituzioni?
“Certamente un uomo delle istituzioni”.
Indro Montanelli scrisse riguardo a suo padre: “Il primo e fondamentale motivo di cui Segni gode nel paese è che non fa rumore nemmeno quando cade”.
“Montanelli che era naturalmente un grande personaggio credo abbia colto l’aspetto essenziale della caratteristica di mio padre ossia la sua discrezione, il suo non protagonismo che diciamo era comune a tutta la generazione democristiana. De Gasperi era un esempio altrettanto eccezionale”.
Di De Gasperi fu uno dei ministri più importanti. Quale rapporto li legava?
“Fu un rapporto molto stretto e anche affettuoso. Il gruppo dei fondatori della DC era un gruppo molto ristretto, ciò non toglie che vi fossero delle differenze politiche. Proprio riguardo alla riforma agraria ci sono state delle forti divergenze tra mio padre e De Gasperi che si spiegano facilmente. Prima di tutto Gasperi era trentino mentre mio padre era nato a Sassari, conosceva bene il problema degli agricoltori, le problematiche che affliggevano il Mezzogiorno. De Gasperi le conosceva ma non le aveva vissute. C’era dunque una sensibilità diversa. In secondo luogo De Gasperi era presidente del Consiglio e doveva tenere conto di tutta una serie di situazioni ed equilibri generali”.
Il 25 marzo 1957 da presidente del Consiglio, Antonio Segni firma i Trattati di Roma istitutivi della CEE.
“Fu un passo importantissimo per l’Italia e l’Europa, in cui grande merito lo ebbe Gaetano Martino. Fu uno dei suoi punti fermi, come era stato per De Gasperi e un po’ per tutta la prima generazione democristiana… ricordo un episodio che mi ha colpito molto a riguardo. In quegli anni, dopo poco la firma, venne in vacanza in Sardegna la figlia di Adenauer. Mio padre un giorno la invitò a pranzo e gli disse: “Suo padre le avrà detto che noi non vogliamo solo l’integrazione economica ma quello che noi vogliamo è l’unione politica”. Cioè vogliamo gli Stati Uniti d’Europa”.
Nel 1962, nella corsa alla presidenza oltre a Segni c’erano anche Saragat e Fanfani. Tra i voti per Segni ci furono anche quelli del MSI.
“Sì. Michelini disse pubblicamente: “Noi abbiamo votato per Segni”. Determinante fu la relativa compattezza della DC. Perché mio padre fu il candidato della DC. Scelto addirittura con procedure interne rigide, prefissate, con voto segreto dei parlamentari democristiani ecc… Fanfani fece una sua campagna e fu dissenziente però poi rientrò. Nella tenuta del partito ebbe una gran parte Moro che fu convinto sostenitore della candidatura di Antonio Segni perché la interpretava come elemento di equilibrio con il centro-sinistra che lui stava per far nascere”.
Quale immagine portava con sé suo padre dopo l’incontro con il generale De Gaulle avvenuto quando era presidente della Repubblica?
“De Gaulle esprimeva uno straordinario carisma e un grande senso di autorità. Ricorda più un vescovo che un generale, mi disse mio padre”.
La città di Sassari ha dato i natali a politici importantissimi: Berlinguer, Cossiga, Segni.
“Le tre famiglie vivevano a Sassari in un raggio di cinquecento metri ed erano tutti sotto la Parrocchia di San Giuseppe. Famiglie che si conoscevano da generazioni. Con la famiglia Berlinguer c’era in comune la vacanza a Stintino che iniziò in tempi molto lontani. Con Francesco c’era l’appartenenza all’Azione Cattolica, alla DC. Quindi sono rapporti strettissimi, dal punto di vista umano molto bello”.
Lei con la sua battaglia referendaria degli anni ’90 ha partecipato al crollo della Prima Repubblica. Guardando retrospettivamente ne è pentito?
“No, sono pentito di non averla vinta. In realtà la vincemmo, mi dispiace di non aver impedito il riflusso di tutto questo. I problemi che oggi vediamo erano già ben presenti. Sarebbe stata una efficacissima risposta alla crisi perché avrebbe presentato un rafforzamento enorme delle istituzioni. C’è una cosa che va detta, il sistema dei partiti era già morto e l’idea era di rafforzare le istituzioni e costruire intorno a loro la vita politica”.
Prima della discesa in campo del ’94 è vero che Silvio Berlusconi la contattò come possibile candidato presidente per il nuovo centro-destra?
“Ci fu solo un pranzo a casa di Gianni Letta a fine ’93 in cui Berlusconi mi spingeva alla creazione di un fronte unitario per evitare la vittoria delle sinistre. Cosa di cui ero d’accordo. Io però insistevo che lui non si candidasse, perché ritenevo politicamente fonte di grandi problemi il conflitto d’interessi”.
Anche Lei come suo padre è rimasto profondamente legato alla sua terra di origine?
“Sì, anche se mio padre continuò a vivere a Sassari.
Anzi, poiché da presidente della Repubblica soffriva molto la vita al Quirinale, lui reagiva intensificando i viaggi in Sardegna. Tra tutti i politici sardi lui era il più sardo - non che gli altri non fossero affezionati - il più legato, attento, conoscitore dei problemi della sua terra”.
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