«Masaniello è tornato, Masaniello è crisciuto. E ancora più grande, vuole diventare. Vuole il potere nazionale, il trampolino di lancio, la gloria di un Podemos napoletano mezzo grillino e mezzo Bernie Sanders. Lui l'ha battezzato già Napolitanos con quel misto d'orgoglio, creatività e follia che fa tanto folklore, pizza-Vesuvio-mandolino; iconografia classica assai nociva per l'antica Capitale del Regno, ma cui Luigi de Magistris, alias Giggino a manetta, non ha saputo sottrarsi. Al punto da assurgere a capopopolo rivoluzionario, a nemico giurato dei giudici - lui ex pm affossatore di Prodi e Mastella, che ha usato contro la legge Severino e i magistrati toni da Cav dei tempi d'oro. Al punto, anche, da andare oltre l'indicibile nei confronti di Matteo Renzi, mostrando fiuto politico ma anche caratura di difficile esportazione.
La vittoria gli dà fiato e ragione anche se, ancora una volta, rafforza l'immagine di una Napoli «aliena» dal resto del mondo. Rabbiosa e ribelle, cova sotto la cenere la peggiore delle sommosse per uno Stato sovrano: quella che si potrebbe definire «Anarchia pittoresca» e che sarà pure innocua, per il resto del mondo, forse proprio perché caricaturale, ma resta abbastanza micidiale per la città. Accarezzandola nel verso giusto; il sogno per ogni napoletano d'essere unico, originale, irripetibile. Fatto a modo suo, insomma: proprio come Giggino o Putipù.
«Luigi non è Masaniello», si ribella la moglie calabrese, Maria Teresa Dolce, nelle ultime interviste. Ma come non cadere nel cliché, se è lo stesso sindaco ad averne fatto arma letale? L'errore di Renzi è stato invece madornale, tipica supponenza fiorentina, Granducato contro Reame, e si sa come succede, sono cose che accendono gli animi, infiammano come in curva A e B al San Paolo. «Leopoldo via, Leopoldo via, Napoli vince!», ripeteva a squarciagola il sindaco dal palco, in uno dei comizi più teatrali e incendiari. Renzi aveva da poco osato venire a Napoli tirandosi dietro un mulo salernitano, il governatore De Luca, come Don Chisciotte visionario irretito dall'ignoranza furba di Sancho Panza. Conquistatori stralunati che snobbano il Mulino del sindaco, fingono di non vederlo, lo umiliano umiliando una millenaria Capitale, una schifiltosa nobiltà. De Magistris ha afferrato al volo il guanto di sfida, ha capito il regalo inatteso, vi si è buttato a pesce. Anzi, sarebbe opportuno dire a «Colapesce», dall'antichissima leggenda che calza a pennello: quella del ragazzo pescatore che usa il corpo di grossi pesci, dai quali si fa inghiottire, per uscire all'arrivo tagliandone il ventre. Così è stato, nel fatidico moto di riscossa che ha messo le ali alla campagna elettorale: «Renzi deve avere paura, qui si deve cacare sotto!». Volgarità declamata contro le volgari elemosine del barbaro giovanotto. Altrove non sarebbe successo, ma qui è nata la rivincita di una plebe e non solo che ha ritrovato di colpo il suo Achille Lauro, il suo Bassolino-prima-maniera, il suo Masaniello. Giggino o Scetavajasse.
Ma non è detto che il futuro di de Magistris si consumi sotto il Vesuvio. Anche se nella prossima luna di miele tanti passi saranno da compiere e tante cose da completare (la giunta, ha annunciato, resta in gran parte quella di prima, a cominciare dal vicesindaco galantuomo, l'ambientalista Raffaele Del Giudice: Squadra che vince non si cambia!). Per esempio, la raccolta della monnezza porta a porta, che doveva arrivare al 70% ed è inchiodata al 29 (dato del Comune). La città, specie nei quartieri del centro, però non ne risente più di tanto. Soprattutto in virtù della vera sfida vinta da de Magistris nei suoi primi cinque anni a Palazzo San Giacomo: quella di trasformare Napoli, forse per la prima volta nella sua storia, in una città d'arte e di turismo stanziale, laddove - prima per alterigia di Capitale, poi per cultura industriale, infine per malgoverno - era sempre stata solo via di transito verso la Bellezza: Capri, Ischia, la Penisola Sorrentina e quella Amalfitana, Pompei e il Vesuvio. Ora invece la Bellezza è qui, non soltanto altrove, e mille attività di ristorazione, artigianato e iniziative culturali sono fiorite attorno all'invasione, pacifica e ammirata, di turisti italiani e stranieri.
Masaniello non ha comunque lesinato neppure in promesse. Il primo passo sarà l'abbattimento delle Vele di Scampia, scempio da architettura sociale e nido di Gomorra, seguito da altri interventi nelle martoriate periferie. E quindi: recuperare fino all'ultimo soldo dei finanziamenti europei che passano per Invitalia; trovare modo di interloquire sul risanamento di Bagnoli sfilatogli dalla strana alleanza Renzi-De Luca; il nuovo stadio del Napoli, così da regalare a De Laurentis il sogno atteso dai tifosi (scudetto e Champions), nonostante occultate simpatie interiste; l'Eco-distretto nella zona Est nella quale far nascere un sistema di compostaggio diffuso; la rinascita del Porto, ancora senza governance «per colpa del governo»; la sfida contro De Luca sull'acqua (lo scontro è sulla municipalizzata Abc, cui De Luca vorrebbe togliere la gestione); l'inizio dei lavori per i nuovi tratti di metrò 1 e 6.
Così la leggenda del sindaco appiedato dalla Severino, risalito sulla breccia a furor di piazza («Faccio dieci km al giorno», spara Giggino o maratoneta) si gioca in una Napoli che lui spera possa proiettarlo fuori. In qualità di leader nazionale campione dell'Antirenzismo, protomartire di Matteo, in prima fila nel «no» al referendum d'ottobre. Dopo i tonfi passati delle sue esperienze con Di Pietro, Ingroia e «arancioni», de Magistris ha annunciato la Cosa tutta sua, un Movimento nazionale rivoluzionario, populista e on the road, la cui traduzione in napoletano dovrebbe suonare piuttosto Putimmo.
Grillismo oltre Grillo e senza i milanesi di Casaleggio, modello artigianale fatto in casa tra Vomero e Arenella, a modo suo, che Giggino l'Astronauta pensa prima o poi di testare in Italia, esportare nel mondo, vendere all'intera galassia.
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