In attesa che il ministro Moavero giovedì partecipi a Montevideo a un «gruppo di contatto» sull'evolversi della crisi venezuelana - otto paesi Ue e quattro sudamericani -, alla Farnesina l'imbarazzo resta palpabile. Pur ripescando clamorosi precedenti - nel 1982 il governo Spadolini disse «no» all'embargo della Cee contro l'Argentina dei generali, durante la guerra delle Falkland --, forte è il contraccolpo avvertito a Palazzo Chigi, dove il premier Conte sta cercando di gestire una situazione che si va facendo insostenibile con i due vicepremier in dissidio perenne e sempre più con la testa «dentro» la campagna elettorale. Anche sulla crisi venezuelana la divergenza sta diventando dirompente, nonostante finora sia Di Maio che Salvini si siano ben guardati dal calcare la mano, dosando le dichiarazioni.
Ma ieri la guerra di nervi in atto ha avuto un'improvvisa impennata. Sia per l'intervento del Quirinale, che fa capire come certe situazioni di stallo non siano più sostenibili a livello internazionale. Sia perché Salvini ha voluto ricevere al Viminale i rappresentanti della comunità venezuelana, dichiarando il proprio sostegno al popolo che soffre, ma subito dopo anche che «non stiamo facendo una bella figura» come paese. Segno che il capo leghista sta arrivando a saturazione, come si evinceva poco dopo con un'altra sua presa d'atto, tendente a spezzare l'accerchiamento grillino: «Se qualcuno preferisce insultare e darmi del rompicoglioni, le cose si fanno complicate...» (chiaro riferimento a Di Battista).
Durante la mattinata, in realtà, i grillini avevano cercato di calibrare ulteriormente la posizione perché, dicevano, «non riconoscere la presidenza Guaidò non significa rimanere neutrali nè, tantomeno, appoggiare Maduro: significa sostenere con fermezza la strada del dialogo e della non ingerenza per scongiurare una guerra civile». Ma l'entrata a gamba tesa del «subcomandante» Di Battista a metà pomeriggio («Ci vuole coraggio a mantenere una posizione neutrale, lo so») aveva invece il sapore di una «bacchettata» nei confronti del premier Conte, con il sottinteso avvertimento a tener dritta la barra in politica estera. Da giorni, infatti, il premier si trova a vivere con estremo imbarazzo la crisi venezuelana, considerati anche i suoi rapporti diretti con il presidente americano Donald Trump. E i contatti che ieri Guaidò ha annunciato di intrattenere con «membri del governo italiano» non paiono riferirsi solo a esponenti leghisti: fanno piuttosto trapelare come Palazzo Chigi abbia continuato a tessere una tela che consenta un ripensamento su Maduro che non appaia clamoroso sputtanamento del partito di maggioranza relativa. Il monito del Quirinale, in tal senso, aveva l'intento di fornire una sponda a Conte in questo suo braccio di ferro con Di Maio. Così come l'intemerata di Di Battista era invece tesa a voler spezzare i fili fin qui intessuti. Dal confuso scambio di «cortesia» ne veniva fuori perciò l'ennesimo «stop» in sede europea, a una dichiarazione ufficiale di sostegno all'Assemblea nazionale venezuelana, nella quale si sarebbe menzionato il fatto che alcuni Stati membri avevano riconosciuto Guaidò «secondo le proprie prerogative». L'Italia era l'unico paese a opporsi, senza aver neppure presentato controproposte. Una gravissima posizione di stallo che giustifica le critiche venute dalle opposizioni, a cominciare dal presidente dell'Europarlamento, Tajani, che vedeva nella crepa tra gli alleati il germe di un'incompatibilità totale. Al punto da chiedere a Salvini, qualora dalla guerra di nervi in corso non uscisse un ripensamento, di «staccare la spina».
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