Uniti dalla ferma collocazione filo-atlantica, e dalla necessità di sostenere l'Ucraina contro la spietata guerra russa.
Divisi però sulle risposte da dare alla crisi e sulla prospettiva europea, oltre che ovviamente italiana. Enrico Letta e Giorgia Meloni tornano ad incontrarsi in pubblico, in un convegno a Roma promosso dalla fondazione Fare Futuro di Adolfo Urso (Fdi) per presentare i risultati di un sondaggio internazionale dal titolo «Democrazia a rischio», e il padrone di casa li presenta come «i due garanti» della linea filo-occidentale dell'Italia. Le ricette, però, si allontanano subito: colpire l'export di gas che finanzia la guerra di Putin? Giammai, per carità, dice Giorgia Meloni: «Sarebbe un suicidio» per noi, troppo alto il costo economico. Mentre il leader dem è stato nettissimo: «Credo sia una priorità assoluta, andare in questa direzione significa accelerare la fine della guerra e togliere risorse alle follie di Putin». Poi c'è il rapporto con la Ue: la leader di Fdi si tiene assai sul vago, dopo anni di battage anti-europeo. E del resto ha applaudito con commosso entusiasmo la rielezione del leader autoritario d'Ungheria Orban, principale supporter (e cliente) di Putin nell'Unione, lo stesso che ha proclamato di aver vinto (in un paese in cui i media sono imbavagliati e le regole istituzionali dettate solo da lui) «contro Zelensky».
Letta invece chiede a gran voce un superamento del «potere di veto» dei singoli paesi, a cominciare dall'Ungheria che si mette «di traverso» su ogni sanzione contro la Russia e ogni «passo avanti nel processo di integrazione europea», e affonda: «La vittoria di Orban è una iattura per l'Europa democratica», criticando il «messaggio» di giubilo post-voto della Meloni: «Solo tre leader si sono congratulati con lui: Salvini, Meloni e Putin». Sulla «idea di Europa», sottolinea, «le differenze con Meloni restano assai marcate». E poi la incalza sulla necessità di far fare passi avanti alla «difesa integrata europea».
Che però è un problema che il leader dem ha anche in casa sua, vista la deriva demagogica anti-Nato e contro gli investimenti per la sicurezza imboccata dall'alleato Giuseppe Conte, supportato dalla sinistra di Leu e (con più ritegno) da un pezzo del Pd. La speranza inconfessabile del Nazareno è che una batosta delle liste M5s alle amministrative rafforzi in quel partito la linea filo-governativa di Di Maio, evitando di dover arrivare allo scontro. Il ministro degli Esteri, da Bruxelles, rivendica la decisione di espellere 30 «diplomatici» di Mosca: «Non significa interrompere le relazioni diplomatiche, significa garantire la nostra sicurezza».
Nella Lega, intanto, sale l'imbarazzo per le posizioni filo-Putin di Matteo Salvini, che quelle espulsioni ha criticato. Brucia ancora la figuraccia internazionale fatta dal leader durante il suo viaggio in Polonia, durante il quale gli venne sventolata in faccia la sua t-shirt col faccione del dittatore russo, e nelle riunioni di vertice di questi giorni molti dirigenti gli hanno insistentemente chiesto di «riequilibrare» la linea, tanto più dopo l'orrore delle stragi russe in Ucraina.
Persino molti suoi fedelissimi, preoccupati dal precipitoso calo
dei consensi che premia la Meloni, gli hanno chiesto di fare qualcosa per uscire dall'angolo in cui si è cacciato, dicendo una parola di condanna per le efferate violenze commesse da Mosca. Senza molto successo, per ora.
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