«Bello tutto eh, ma non prendo lezioni da nessuno. Adesso le carte le do io». Quarantatré minuti di intervista a Quarta Repubblica, con una Giorgia Meloni che si muove secondo un doppio spartito. In modalità uno difende l'azione del governo, a partire dalla politica estera, e ne rivendica scelte e provvedimenti. In modalità due replica con ruvidità - non nel tono, ma nel merito - alle critiche degli ultimi giorni, quelle dei giornali e quelle delle opposizioni. Insomma, pur assicurando che ancora non ha deciso se si candiderà in prima persona alle Europee di giugno, l'impressione è che la premier sia già in clima da campagna elettorale. D'altra parte, l'appuntamento è decisivo non solo per la composizione del nuovo Parlamento Ue e per i futuri vertici delle istituzioni comunitarie (Commissione e Consiglio). Ma, inevitabilmente, segnerà uno spartiacque anche per la politica di casa nostra. Soprattutto se dovessero essere confermati gli attuali sondaggi, che vedono un rafforzamento della leadership di Meloni. Lo sa bene anche la premier, che quota la possibilità di una sua discesa in campo al 50% («deciderò all'ultimo, quando si formano le liste») ma che - ammette nell'intervista con Nicola Porro su Retequattro - è consapevole che «a giugno avrò governato per un anno e mezzo» e «potrebbe essere importante verificare se ho ancora quel consenso dei cittadini», che «è l'unica cosa che mi interessa».
La presidente del Consiglio rivendica l'azione di politica estera. Definisce «prevalentemente di difesa» la missione navale Ue nel Mar Rosso contro «l'inaccettabile minaccia degli Houthi», parla di Emmanuel Macron e del fatto che sul Patto di stabilità «si sarebbe potuto fare un po' di più insieme» e spiega che se alla Casa Bianca dovesse tornare Donald Trump non avrebbe «ripercussioni» sui rapporti con l'Italia. Poi ammette che sì, all'inizio all'estero «c'è stato un pregiudizio» nei suoi confronti. Dovuto, dice, «al racconto che era stato fatto dall'Italia», ragione per cui «qualcuno si aspettava di veder arrivare un marziano e poi hanno trovato un normale essere umano». E ancora: «In tanti mi hanno detto che, per quello che si leggeva sulla stampa, si aspettavano un'impresentabile per poi trovarsi davanti una persona seria, che difende i propri interessi nazionali, rispetta i propri interlocutori e ha una sola parola».
Il racconto e la narrazione, quello della stampa e dei giornali. È un fronte su cui Meloni torna spesso. Come ieri, quando - dopo averla presa alla larga sulla politica estera - decide di affondare il colpo. E chiama in causa Repubblica e il suo editore, la famiglia Agnelli-Elkann. «Ho letto una prima pagina che diceva L'Italia è in vendita», la butta lì. Un'accusa, attacca, che «mi arriva dal giornale di proprietà di quelli che hanno ceduto la Fiat ai francesi, hanno trasferito all'estero sede legale e sede fiscale e hanno messo in vendita i siti delle storiche aziende italiane». E ancora: «Non so se il titolo fosse un'autobiografia, però le lezioni di tutela dell'italianità da questi pulpiti anche no».
Pure nei confronti del Pd (e della segretario Elly Schlein), i toni sono duri. Si parte dal consigliere della Corte dei Conti, Marcello Degni, nominato dall'allora premier Paolo Gentiloni e finito al centro delle polemiche per un post che definire antigovernativo è un eufemismo. Meloni si dice «colpita» dal fatto che Schlein non abbia preso le distanze, con l'argomento che «prima non c'era lei» alla guida dei dem. «A me chiedono conto di quello che faceva Mussolini, a loro non puoi chiedere conto di quello che il Pd faceva un anno fa, siamo seri...», chiosa la premier. Che ribatte anche alle critiche dell'opposizione sulla nomina di Luca De Fusco a nuovo direttore del Teatro di Roma. «Il tempo del cosiddetto amichettismo - dice - è finito. Adesso le carte le do io, nel senso che le danno gli italiani. Prima per arrivare da qualche parte dovevi avere la tessera di partito, per questo fanno casino sul Teatro di Roma». E affonda: «Qual è lo scandalo? Che non ha la tessera del Pd».
E sempre i dem chiama
in causa per la polemica su Chiara Ferragni dopo le sue critiche ad Atreju. «Manco avessi attaccato Che Guevara», ironizza annunciando per il Consiglio dei ministri di giovedì una norma sulle iniziative commerciali di beneficenza.
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