Milano - Altro che antagonisti o no Tav: sono «squadristi». Testuale. In tempi di dilagante buonismo giudiziario verso gli incappucciati che trasformano i cortei in sarabande di violenze e distruzioni (da ultima, l'assoluzione in appello a Milano dell'unico condannato per devastazione per i fatti del Primo Maggio) arriva una sentenza fuori dal coro: che cerca di riportare nei binari del diritto (e del buon senso) il trattamento giudiziario dei violenti, ricordando l'impatto che le loro imprese hanno sulla vita civile del Paese. E, en passant, offre un interessante dettaglio sulla continuità generazionale, di padre in figlio, tra le violenze degli anni Settanta e le loro repliche al giorno d'oggi.
La sentenza depositata nei giorni scorsi dal giudice Guido Salvini, presidente della Prima sezione del tribunale milanese, riguarda un episodio di tre anni fa: l'attacco con spranghe ed esplosivi alla sezione del Partito democratico di via Archimede. A mettere il Pd nel mirino degli attentatori, l'appoggio alle opere dell'Alta velocità ferroviaria in Val Susa, uno dei cavalli di battaglia preferiti del movimento antagonista. Nella notte tra il 20 e il 21 novembre 2013, da una Opel Agila scendono in due, mentre un terzo resta alla guida, cercano di sfondare la porta di ingresso, non ci riescono, allora collocano un grosso petardo sulla finestra accanto e lo fanno esplodere distruggendola: ma è la finestra della casa accanto, dietro cui dorme un ignaro cittadino che si trova i vetri fino in camera. Un passante prende la targa dell'Agila: è intestata alla mamma di un giovane militante dello Zam, uno dei centri sociali più arrabbiati dell'area milanese. Il cellulare intestato al padre del ragazzo è attivo a quell'ora, alle 2,20, proprio in quella zona. Da quel numero, pochi minuti prima, partono una serie di telefonate verso un altro numero intestato a un nome che riporta dritto nel cuore degli anni di piombo: Giuseppe Memeo detto «Terun», militante delll'Autonomia Operaia e poi dei Proletari Armati per il Comunismo. È lui l'uomo che appare nella foto-simbolo di quegli anni, mentre a gambe larghe in via De Amicis spara sulla polizia: un giovane agente, Antonino Custra, rimane ucciso. Oggi Memeo ha un figlio, anche lui militante dell'Autonomia, che spesso usa quel telefono: e, secondo la sentenza, era nel gruppetto che tre anni fa dà l'attacco alla sede del Pd in via Archimede.
Memeo junior non può venire giudicato perché la Procura non lo ha neanche incriminato; per il suo compagno, incastrato dalla targa dell'auto e dai telefoni, la Procura aveva comunque chiesto l'assoluzione. In aula, il giovanotto aveva ammesso che l'auto apparteneva alla madre e che ogni tanto la usava pure lui, ma ha aggiunto che spesso la prestava anche agli amici, e quella notte proprio non poteva dire chi la guidasse: «Io di sicuro in via Archimede non c'ero ma proprio non so ricordarmi dove passai quella notte». Dei petardi, della maschera antigas, dei manuali di guerriglia urbana che gli sono stati sequestrati in casa, ha spiegato che si trattava solo di materiale da studio e da collezione.
Il giudice Salvini non gli crede e lo condanna a sei mesi con la condizionale. E quel che conta sono le motivazioni: «All'interno degli atti di violenza politicamente motivati si tratta di un episodio minore, ma il suo significato non deve comunque essere sottovalutato. Si tratta di un'azione che aveva come finalità quella di spaventare e intimidire i frequentatori di un circolo di un partito colpevole di avere in merito a un determinato una posizione diversa da quella del movimento no Tav.
Quello che è avvenuto la notte del 21 novembre 2013 semplicemente un attacco, il cui il valore simbolico è ben più significativo del danno materiale, portato alla libertà altrui di esprimere liberamente opinioni politiche diverse da quelle degli aggressori: una azione definibile come squadrista».
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