La metamorfosi dell'ex comunista cacciato dalla piazza e rinato populista

Dalle dimissioni alla vittoria in cinque anni. Dalle proteste di piazza del 2018 per la morte del giornalista d'inchiesta Ján Kuciak e della compagna Martina Kunírová alla vittoria di ieri

La metamorfosi dell'ex comunista cacciato dalla piazza e rinato populista
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Dalle dimissioni alla vittoria in cinque anni. Dalle proteste di piazza del 2018 per la morte del giornalista d'inchiesta Ján Kuciak e della compagna Martina Kunírová, che indagavano sui legami fra la 'ndrangheta e le autorità slovacche, alla vittoria di ieri. Robert Fico, 59 anni, già tre volte premier della Slovacchia, sembrava finito e invece è risorto dalle ceneri e torna al centro della politica del suo Paese, ma anche dei delicati equilibri europei, nel pieno dello scontro con la Russia di Putin.

Figlio di una commessa e di un conducente di muletto in fabbrica, Fico si iscrive al Partito comunista a 19 anni. Era il 1986, il momento in cui conquista anche una laurea in legge. Uno dei suoi professori, Jozef Moravík, che poi diventerà primo ministro, lo descrive come «ambizioso, molto sicuro di sé e coinvolto nelle discussioni». Dopo la Rivoluzione di Velluto dell'89, Fico si iscrive al movimento che ne prende l'eredità, il Partito della Sinistra democratica Sdl. Viene eletto in Parlamento per la prima volta nel 1992, a 28 anni, e dal '94 al 2000 rappresenta la Slovacchia come consulente legale alla Corte europea dei diritti dell'uomo, perdendo tutti i 14 casi di cui si occupa. Dal '99 al 2002 lavora come deputato «indipendente». Fino alla fondazione di Smer, il partito che lo ha riportato alla vittoria e che lui definisce espressione della «terza via», «socialdemocratico con specifiche nazionaliste», ma che si rivela populista e strizza l'occhio alla destra. Così arriva alla guida del governo dal 2006 al 2010 e dal 2012 al 2018, fallendo il tentativo di farsi eleggere presidente della Slovacchia.

Sotto la sua leadership, il Paese - divenuto membro della Ue nel 2004, - entra nell'eurozona nel 2009 e Fico parla dell'ingresso come di «una storia di successo». Ma nel 2013, in occasione delle proteste di piazza Maidan, in Ucraina, emergono le sue tendenze filo-russe e le critiche a Bruxelles. «La Ue non è un obbligo religioso», dice allora. E accusa l'Unione «di essere così innamorata di sé» da essere convinta che non ci sia alternativa nel mondo. Nel 2017 prosegue con l'ambiguità, dicendo che i «fondamentali» del suo governo sono la vicinanza alla Francia e alla Germania, ma anche la cooperazione con i Paesi del gruppo Visegrad, i più critici e ostili con Bruxelles: Ungheria, Polonia e Repubblica ceca, oltre alla sua Slovacchia. Idem nel 2014, dopo l'invasione russa della Crimea, quando mentre lui sostiene che le sanzioni contro la Russia non funzionano, il suo ministro vota a favore. Copione che si è ripetuto con l'invasione dell'Ucraina, alla quale non vuole più inviare armi.

«La Slovacchia sarà ora più vicina all'approccio ungherese che a quello della maggioranza dell'Europa», spiega Tomas Koziak, docente a Scienze Politiche di Kutna Hora, in Repubblica ceca. Fico appare sempre più come un piccolo Orbán, l'ultima spina nel fianco dell'Europa.

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