Se, fino a ieri, sostenevi saggiamente che di «lockdown si può morire», spuntava subito il fenomeno pronto a bollarti come un «liberista da divano». Forse, da oggi, tanta arroganza sarà meno ostentata. Il motivo? L'altra notte un piccolo imprenditore, rovinato da tre mesi di chiusura forzata della sua azienda, si è tolto la vita.
È accaduto a Napoli, nel quartiere San Giovanni a Teduccio. Poteva accadere in qualsiasi altra parte d'Italia. I colleghi di Antonio che versano nelle sue stesse condizioni sono infatti ovunque. E sono tantissimi. Gente terrorizzata dagli effetti della crisi economica provocata dalla pandemia, ma pure da una sequela di provvedimenti sbagliati. Così è arrivato il primo suicido della Fase 2. Speriamo resti l'unico. Ma ci crediamo poco.
Antonio Nagaro, 57 anni, ha aspettato che facesse buio. Poi andato nel capannone industriale e si è impiccato. Per lui il vero «contagio» era iniziato il giorno in cui il governo gli aveva ordinato di sbarrare il cancello della ditta. Una di quelle fabbriche a conduzione «semi-familiare», dove gli operai non sono dei «sottoposti» ma colleghi con cui c'è un rapporto che va ben oltre il contratto di lavoro.
Antonio era sì il titolare della società, ma non aveva nulla del «padrone». Ogni mattina anche lui si metteva la tuta e diventava un operaio tra i suoi operai. Con i quali mangiava insieme. Come si fa tra amici.
Gli affari, prima del blocco causato dall'emergenza-coronavirus, non andavano male. Nagaro era uno tosto, abituato a rimboccarsi le maniche e a non mollare mai. Antonio, sul «divano», non ci stava. E, per lui, la parola «liberismo» significava non far mancare mai lo stipendio ai dipendenti. «La mia squadra», la chiamava. «La concorrenza è spietata, ma la passione è la nostra arma segreta», ripeteva agli amici. Che, da quando era stato costretto a fermare i macchinari, lo vedevano sempre più depresso. Antonio sapeva che ogni giorno di inattività complicava maledettamente le cose.
«Siamo in pochi nel capannone, tutti sani. Perché non ci fanno ricominciare a lavorare?», si chiedeva. Intanto le settimana passavano. Con i creditori che battevano alla porta. E poi c'erano scadenze fiscali, spese, tasse. Che del «lockdown» se ne infischiano altamente.
Tre giorni fa la «bella notizia»: la fabbrica di Antonio rientra tra quelle che nella Fase 2 possono togliere i lucchetti. Ma ormai è troppo tardi. Nogaro controlla i conti: tre mesi di stop hanno lasciato il segno. Nagaro realizza che per la prima volta, forse, dovrà dire a dipendenti e fornitori: «Mi dispiace, ma non posso pagarvi». Per lui sarebbe un'onta insopportabile. Ha la coscienza a posto, eppure si sente in colpa. Mentre chi dovrebbe davvero sentirsi in colpa continua a fare passerella in tv.
Antonio prende un foglio e scrive i motivi del suo gesto. Sa di dare un dolore terribile alla moglie e alla figlia. Ma ormai ha deciso. Chiede scusa a tutti. In tanti, invece, dovrebbero chiedere scusa a lui.
Ieri , durante la riunione con Rete Imprese Italia, il premier Giuseppe Conte ha riferito ai partecipanti la «dolorosa notizia»: «Non conosciamo ancora i dettagli di questa vicenda. Siamo vicini alla famiglia», ha detto il presidente del Consiglio ai rappresentanti di commercianti ed esercenti. Nessuno ha avuto il coraggio di dire una parola.
Oggi siamo al 7 maggio. L'annunciata riapertura degli esercizi prevista per giugno è ancora lontanissima. Domani si svolgeranno i funerali di Antonio. Potranno partecipare solo 15 persone. In migliaia piangeranno da casa.
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