"Migranti, vi chiedo perdono". Ma i confini restano chiusi

La premier Ardern si scusa per la repressione anni '70. Ma zero risarcimenti e leggi restrittive alla frontiera

"Migranti, vi chiedo perdono". Ma i confini restano chiusi

Ghiacciai, spiagge e un pizzico di politicamente corretto. L'ultimo coup de théâtre della premier neozelandese è arrivato ieri davanti ai rappresentanti delle comunità del Pacifico, offrendo «scuse formali e senza riserve» per i cosiddetti «Dawn Raids», cioè i «Raid dell'alba» degli Anni Settanta. I fatti citati da Jacinda Ardern come «profonda ferita» si riferiscono al trattamento degli immigrati in Nuova Zelanda provenienti dalle isole limitrofe: avevano lavorato per anni nello Stato, lì si erano insediati e avevano messo su famiglia. Ma col visto scaduto, non più considerati utili come forza lavoro e anzi accusati di sottrarre lavoro ai neozelandesi, furono presi di mira dalla polizia e rimpatriati anche a distanza di anni.

Ardern ha passato al setaccio la Storia del Dopoguerra, mettendo all'indice i connotati razzisti di quei raid. Per non finire risucchiata nel dilagante universo della cancel culture, lei, laburista doc, per i suoi 41 anni si è quindi regalata un gesto rituale detto ifoga, che qualcuno traduce come «umiliarsi» o «degradarsi». E che invece, nel suo caso, è equivalso a cospargersi il capo di cenere (o in quest'occasione ricoperta completamente da un maxi-tappeto) per eventi del secolo scorso che hanno visto le minoranze non bianche vittime di soprusi.

Paladina progressista, Ardern aveva già scelto come capo diplomazia Nanania Mahuta, donna Maori con tatuaggio tradizionale sul viso. Ha chiesto scusa a nome del governo, promettendo di finanziare l'istruzione delle comunità del Pacifico con borse di studio senza dimenticare un passato assente dai libri di scuola. Ma lo ha fatto perché tirata per la giacca da una petizione firmata da 7.400 persone. E senza cambiare di una virgola le attuali leggi restrittive in materia di immigrazione.

In una cerimonia tradizionale del perdono, Ardern ha condannato i rimpatri forzati registrati soprattutto tra il 1974 e il 1976 dopo i visti temporanei concessi per soddisfare la necessità di lavoratori nelle fabbriche e nei campi. A chi tra loro non appariva come neozelandese bianco fu poi chiesto un documento per provare che non stavano rimanendo illegalmente in Nuova Zelanda; controlli a tappeto per le strade, nelle scuole, nelle chiese. Migliaia furono rapiti e cacciati. E nonostante molti overstayer fossero anche britannici o americani, solo le persone del Pacifico vennero prese di mira. Tanto che la principessa di Tonga, Mele Siùilikutapu Kalaniuvalu Fotofili, ieri ha detto che l'impatto di quei «Raid» ha perseguitato la sua comunità per generazioni. «Siamo grati al suo governo per avere preso la giusta decisione di scusarsi», ha detto, spiegando che però la Ardern, alle parole, potrebbe far seguire i fatti rispondendo alle attuali necessità di immigrazione.

Contribuendo a rileggere la storia con lenti antirazziste a buon mercato, Ardern ha infatti parlato di «dolore, rimorso e rammarico» per quelle repressioni, annunciando un conteggio ufficiale dei raid a partire dai registri scritti e dai racconti orali. Le scuse «senza riserve» non si sono però tradotte in un risarcimento finanziario. Ma in uno spot buonista in favor di camera davanti a centinaia di persone in lacrime provenienti dalle terre dei Maori.

Il «perdono» è arrivato col sigillo di un applauso. Mentre il Paese consente ancora al settore agricolo di assumere persone dall'estero per il lavoro stagionale «a tempo». E il governo ammette solo di aver «identificato aree di miglioramento».

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