Un grosso, delicato garbuglio in cui alla fine l'ultima parola spetterà al governo: ma che intanto scaraventa sul tavolo di tre giudici milanesi una responsabilità assai gravosa.
Perché il 15 gennaio la Quinta sezione della Corte d'appello di Milano dovrà non solo decidere se concedere gli arresti domiciliari all'uomo che le comparirà davanti, l'iraniano Mohammad Abedini, ma anche influenzare la sorte di Cecilia Sala, la giornalista del Foglio arrestata a Teheran. La Sala - a meno di svolte improvvise nella trattativa diplomatica - quel giorno si troverà ancora detenuta in Iran, anche se in condizioni forse più umane di quelle che le sono state garantite finora.
Farsi carico della sorte di una persona in cui il nome nemmeno compare nelle carte processuali: questo è il compito inconsueto che attende dunque i magistrati della Corte d'appello di Milano. In base al codice, i giudici dovranno occuparsi solo della posizione di Abedini, degli elementi d'accusa a suo carico e dell'eventuale pericolo di fuga. Ma è chiaro che l'ombra del «caso Sala» sarà ben presente nell'aula di udienza.
La nomina dei tre giudici spetta a Francesca Vitale, presidente della Quinta sezione: magistrato esperto e abituato a prendersi responsabilità (fu lei a prosciogliere Silvio Berlusconi nel caso Mills, scontrandosi duramente con i colleghi della Procura). Per dare i «domiciliari» a Abedini la Corte dovrebbe andare contro il parere della Procura generale, che chiede di tenerlo in carcere fino alla decisione sull'estradizione. Il problema è che questa seconda decisione non arriverà rapidamente, perché il materiale d'accusa completo non è ancora arrivato dagli Usa, poi dovrà essere tradotto, poi la Corte potrebbe chiedere integrazioni. E una lunga carcerazione preventiva di Abedini ostacolerebbe le trattative per il rilascio di Cecilia Sala.
L'unico a poter trarre d'impiccio i magistrati milanesi è il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che per legge può revocare l'ordine di arresto in attesa della decisione sull'estradizione. Ieri fonti ministeriali citate dalla Adnkronos dicono che il ministro non intende interferire per ora con il procedimento della Corte d'appello. Ma se i giudici decidessero di tenere in carcere Abedini, e invece la «ragion di Stato» e lo sviluppo delle trattative con l'Iran suggerissero una mossa distensiva, il ministro potrebbe intervenire a favore di Abedini nel giro di pochi giorni: prima del 20 gennaio, ultimo giorno della presidenza di Joe Biden in Usa.
A quel punto Abedini lascerebbe il carcere di Opera (dove ieri ha incontrato il suo avvocato, cui ha raccontato di pregare per il benessere di Cecilia Sala) e aspetterebbe a piede libero la decisione sulla richiesta di estradizione americana. Anche lì in prima battuta la decisione spetterebbe alla Corte d'appello milanese, ma anche in quella fase Nordio potrebbe intervenire. Se i giudici decidessero per la consegna agli Usa, il ministro potrebbe rifiutare il suo okay, che è indispensabile per legge. Se i giudici invece rifiutassero la richiesta di estradizione, Nordio potrebbe risolvere definitivamente la grana espellendo Abedini dal territorio nazionale in quanto «persona non grata»: e la destinazione più ovvia sarebbe la consegna alla Svizzera, visto che il businessman ha anche il passaporto elvetico.
Insomma: se la trattativa diplomatica tra Italia e Iran si sbloccasse, superando lo stallo registrato in queste ore, gli strumenti giuridici per rispettare gli accordi e salvare Abedini dal rischio di finire in un carcere americano ci sono tutti.
Per ora, però, il cerino è in mano ai magistrati milanesi. Sapendo che, come racconta un loro ex collega che si è occupato a lungo di estradizioni, «noi facciamo la nostra parte, ma a decidere alla fine è la politica. Ed è giusto così».
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