Segregate in casa, senza lavoro, nessun contatto con l'esterno e vittime di soprusi benedetti dagli imam. È questa la condizione tipo in cui vivono tante donne musulmane, non nei loro Paesi d'origine, ma in Italia, nell'indifferenza delle istituzioni che permettono alle comunità islamiche di amministrare la vita dei fedeli in nome di Allah e del Corano.Una situazione di allarme sociale denunciato dall'Huffington Post con la pubblicazione del lavoro di Noemi Bisio, ricercatrice dell'Università Roma Tre, che ha studiato da vicino la comunità romana di immigrati dal Bangladesh. I bengalesi sono cresciuti rapidamente nella Capitale, fino ad arrivare a 20mila persone, di cui 6.200 donne; di queste, appena 170 lavorano, mentre 220 gestiscono imprese piccolissime. Quasi tutte sono arrivate in Italia attraverso un matrimonio combinato e celebrato in patria, senza aver mai visto il marito. Dalle testimonianze raccolte dalla Bisio emerge un contesto di falsità familiare e di degradazione della condizione femminile. Arrivano abbagliate dalla finta promessa di una vita agiata, mentre gli uomini raccontano di successi favolosi. In Bangladesh le donne possono lavorare, qui non è permesso. Nel loro Paese non portano neanche il velo integrale, ma in Italia rivela la ricercatrice - i mariti le obbligano a farlo, per via della «reislamizzazione della comunità migrante a Roma e come forma di difesa della propria identità in un contesto culturale estraneo». E per «reislamizzazione» si intende anche la violenza domestica, praticata con regolarità per fari rispettare le leggi del Corano. «Non sono rari spiega la Bisio all'Huffington Post episodi di violenza domestica contro mogli che, intravvedendo la possibilità di una vita diversa, accennano a una pur blanda ribellione». Ad influire sulla condotta dei mariti sono anche i commenti degli altri appartenenti alla comunità islamica e degli imam. Così, se una moglie sbaglia, arrivano le percosse. «Di solito all'inizio vengono picchiate sui piedi, in testa, in modo che le ferite restino nascoste - spiega Genny Giordano della cooperativa sociale antiviolenza Iside - le più disgraziate sono sfigurate con l'acido delle batterie delle auto. L'acido ti corrode per tutta la vita, va avanti fino alle ossa, nel tempo può ucciderti».Fuggire è pressoché impossibile. «Spesso più nuclei familiari coabitano, le donne sono controllate, intervengono le famiglie d'origine, e poi tutta la comunità», continua Giordano che pone l'accento sulla preponderanza dell'islam. La segregazione poi, non mira solo a sottrarre mogli e figlie agli sguardi di altri uomini, ma anche a impedire loro di frequentare donne occidentali, considerate «pericolose e corrotte». In Italia inoltre c'è la proliferazione di movimenti radicali che cercano di convertire i non credenti o riconvertire i cattivi musulmani. Così che i musulmani si radicalizzano. Fancesca Mallamaci, responsabile di tre servizi d'accoglienza dell'Arcidiocesi di Reggio Calabria, racconta che «sottrarsi alla violenza dei mariti significa fare i conti con la comunità patriarcale, famiglie d'origine, padri, zii, fratelli che fanno una questione d'onore.
Alla notizia che la donna è scappata o ha chiesto aiuto, si incontrano e stabiliscono la sua sorte. Invariabilmente si tratta di dare al marito un'altra possibilità. Abbiamo più fallimenti che successi, poche capiscono che subire violenza non è ineluttabile».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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