Milano Del plutonio, delle chiacchiere, delle teorie cospirazioniste che hanno seguito la triste fine di Imane Fadil, aspirante modella e poi inghiottita dal gorgo del «caso Ruby», alla fine resta l'ipotesi più semplice, quasi banale: l'esito drammatico di una colpa medica, la conclusione letale di una serie di errori come, purtroppo, in ospedale accadono da sempre.
Con dodici avvisi di garanzia per omicidio colposo la Procura della Repubblica porta con i piedi per terra una vicenda su cui si era fantasticato anche troppo, come se si parlasse di una spystory e non della morte di una ragazza di trentaquattro anni. Di cui, a un certo punto, qualcuno ha persino osato sostenere che avesse voluto fingere il suicidio, e che la simulazione le fosse scappata di mano.
La decisione di incriminare undici sanitari in servizio alla Humanitas di Rozzano nei giorni dell'agonia di Imane, morta l'1 marzo 2019, è stata, in realtà, una scelta obbligata da parte della Procura milanese. Dal loro punto di vista, i pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio avrebbero chiuso il fascicolo senza indagare nessuno, forti di una ampia perizia medico-legale (firmata anche da Cristina Cattaneo, la più famosa cacciatrice di misteri post-mortem d'Italia) che riconduceva il decesso alla categoria degli eventi imprevedibili.
Ma i familiari della ragazza non si sono arresi, hanno chiesto che si continuasse a indagare, e all'inizio di gennaio avevano avuto un primo successo. Il giudice chiamato a esaminare la richiesta d'archiviazione dell'inchiesta aveva respinto il fascicolo al mittente, chiedendo ai pubblici ministeri di scavare meglio e più a fondo su uno dei temi sollevati, attraverso il legale Mirko Mazzali, dalla madre Saadia e dalla sorella Fatima di Imane: assodato che la giovane fu uccisa da una emorragia gastroesofagea causata da una forma estrema di aplasia midollare, sarebbe cambiato qualcosa se la diagnosi fosse stata avanzata prima? Se nei trentuno interminabili giorni trascorsi da Imane all'Humanitas si fosse individuata per tempo la patologia di cui soffriva, e se le cure fossero state scelte meglio e più in fretta?
È su questo punto che i racconti dei testimoni hanno sollevato i maggiori dubbi. Interrogati dai pm, gli infermieri del'Humanitas hanno raccontato di come le diagnosi saltassero dalla leptospirosi al lupus all'avvelenamento alla leucemia, mentre Imane stava sempre peggio: «Non aveva una diagnosi ben definita, destabilizzava il fatto che non si trovasse una diagnosi certa per la sua insufficienza renale e epatica», racconta l'infermiera Carlotta Pavese. E anche quando finalmente viene individuata l'aplasia le risposte appaiono incerte, si ricorre a una trasfusione di plasma anziché pensare a un trapianto di midollo. «Le scelte terapeutiche successive alla diagnosi non sono state coerenti con tale diagnosi», scrissero anche i consulenti dei pm.
Che davanti a questi racconti non si potesse chiudere il «caso Imane» come morte inevitabile, per i familiari era doveroso. E ora la Procura cambia registro all'indagine, che da inchiesta «contro ignoti» prende una strada precisa, e porta sotto tiro l'intero staff medico che nei 31 giorni lavorò alla pratica.
In un comunicato, ieri pomeriggio «Humanitas esprime ferma convinzione dell'assenza di responsabilità a carico dei professionisti che si sono prodigati nelle cure di Imane Fadil, esprimendo un'altissima competenza professionale e appropriatezza delle cure».
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