Morti la donna incinta e il suo bimbo. A Mariupol il simbolo dei crimini russi

Non ce l'hanno fatta la mamma e il piccolo, uccisi dalle bombe sull'ospedale pediatrico. Lo scatto aveva fatto il giro del web

Morti la donna incinta e il suo bimbo. A Mariupol il simbolo dei crimini russi

Si teneva la pancia più della vita. Ma era troppo pallida, vestita troppo leggera per un clima così esigente. Sbattuta su una barella col solo insulto del freddo e delle bombe a ricordarle di essere ancora un po' viva. Il braccio tirato sopra al collo a cercare di scacciare quello stato di allerta continuo, in una luce di ferro. E quell'altra mano sulla pancia, sempre. Fino a quando ha avuto respiro, ha detto al suo bambino che sarebbe andata bene. Che ce l'avrebbe fatta lei per entrambi, lei che era già due. Poi invece tutto ha ceduto verso il basso: il braccio, il viso, la pancia, le forze... Si è fermata di colpo, con le mani di marmo ancora un attimo nell'aria. La corsa degli uomini che reggevano la barella, lo sforzo dei medici... Tutto disperato e inutile: lei aveva il bacino schiacciato, hanno fatto nascere il bambino con un cesareo, ma non c'è stato nulla da fare. Al mattino hanno sentito svegliarsi una alla volta la vita degli altri. Ma non la loro: quella della mamma e del bambino.

È stata la loro ultima foto da vivi insieme: lui che non è riuscito a venire al mondo, lei che se n'è andata, portandoselo dietro. Esangui, vestiti di carne e cotone, in mezzo alle macerie dopo il bombardamento sull'ospedale pediatrico di Mariupol. La mamma ci si era trascinata per dare la vita, invece se li è presi la morte. Niente più pannolini, feste, scuole, pappe, esami, non ha fatto in tempo ad esserci nulla. E adesso che sono morti entrambi, sono diventati solo corpi. I corpi del reato. Il mondo li conserva in quella corsa immobile nello scatto di una macchina fotografica: lei, la sua felpa grigia, la sua faccia grigia, la pancia terrorizzata e ferma, restia ad affacciarsi in quella nursery inospitale che è diventato il mondo adesso, in Ucraina. E quel lenzuolo incoerentemente sgargiante tra lei e la lettiga: semi di fragola o di anguria, sullo sfondo rosso. Uno stridore per la stagione e il contesto e la circostanza. Ma si è raccattato tutto quello che poteva servire, si è usato tutto alla disperata. E le incoerenze non sembrano più casuali. Più un particolare stride, più c'entra: più serve a sottolineare l'orrore. I semi d'anguria, o di fragola... Sotto a quel corpo, quei corpi, senza vita, tra i sassi e il fumo antracite. Una donna incinta non dovrebbe mai avere il viso da combattimento. Dovrebbe avere invece i lineamenti distesi dalle promesse, la pelle tirata e setosa e lucida di futuro, dovrebbe essere piena dall'ansia di dare, non di togliere, di iniziare, non di finire. E non dovrebbero essere queste le immagini del suo album. Ci vorrebbero i fiori, ma non quelli di commiato, i sorrisi, ma non quelli della paralisi tirata nella smorfia della morte, ci vorrebbero i parenti, ma non quelli che piangono dilaniati, ci vorrebbero i ricordi, ma non quelli che sono costretti a salutarti per sempre. È andato tutto al contrario. La vita è «diventata morta», non è diventata vita.

È così che secondo il Cremlino non è battaglia, è così che secondo il Cremlino non si toccano i civili, è così che secondo il Cremlino non ci sono crimini di guerra.

Ci sono loro, che non hanno fatto in tempo a diventare due, e poi Kirill, 18 mesi, morto dopo la disperata corsa in ospedale, e Tanya, morta di sete a 6 anni sotto le macerie, e poi la famiglia sterminata per strada: la mamma e i suoi due figli con i loro trolley rotti svenuti accanto a loro. E poi Polina, con i suoi capelli colorati per qualcosa di meglio. E poi tutti gli altri sdraiati, recisi a terra, senza foto e senza nome ma con tanta vita rotta lo stesso. I corpi del reato.

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