Morto un Califfo se ne fa un altro: l'Italia rischia

Il jihadismo sempre più diffuso. E passerà a noi il comando delle forze Nato in Irak

Morto un Califfo se ne fa un altro: l'Italia rischia

«Ora il mondo è più sicuro». Così prometteva ieri Joe Biden annunciando l'uccisione di Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi, il capo dell'Isis successore di quel Califfo Abu Bakr Al Baghdadi, eliminato in un raid analogo nell'ottobre 2019. Ma possiamo credere a Biden? L'esperienza non lo consiglia. Ad oggi né l'eliminazione di Osama Bin Laden, né quella del decapitatore Abu Musab Al Zarqawi in Irak, né quella di Al Baghdadi hanno messo fine al terrore islamista. Certo, le morti di Bin Laden e di Zarqawi hanno messo in crisi Al Qaida, ma hanno anche favorito la nascita e lo sviluppo di uno Stato Islamico ancor più spietato e aggressivo arrivato a controllare, tra Siria e Irak, un'area vasta quasi quanto l'Italia. E l'apparente sconfitta del Califfato, seguita dall'eliminazione di Al Baghdadi, non ha impedito lo sviluppo dell'Isis in altre aree. Lo dimostrano le azioni di Isis Khorasan, trasformatosi nel principale antagonista del potere talebano in Afghanistan. E lo conferma l'avanzata nel Sahel di «Isis nel Grande Sahara» e quella di un Boko Haram ancora in prima linea in Nigeria.

A differenza di quanto promette un Biden alla disperata ricerca di successi dopo l'umiliante ritiro afghano, la guerra al terrorismo islamico sembra dunque insegnarci che l'eliminazione di un Califfo o un Emiro finisce sempre con regalarcene un altro. Ma questa costante resurrezione dalle proprie ceneri non è certo legata al carisma o alle capacità militari dei leader di turno. L'inarrestabile rinascita della fenice terrorista e il continuo ricambio dei suoi militanti si spiega piuttosto con la sempre più vasta diffusione di un fanatismo jihadista alimentato da finanziamenti provenienti da tutto il mondo islamico. In quest'ottica anche il riuscito raid americano della scorsa notte altro non è se non il tentativo di rimediare alle sottovalutazioni e agli errori commessi in Siria e Irak dopo il febbraio 2019, quando la battaglia di Baghuz sembrò segnare la definitiva sconfitta dell'Isis. Per capirlo, basta considerare la collocazione dell'ultimo rifugio di Al Qurayshi, situato come quello di Al Baghdadi, in prossimità della frontiera turca e all'interno di quella provincia siriana di Idlib dove l'esercito di Erdogan opera, nonostante l'appartenenza alla Nato, al fianco delle formazioni jihadiste. Errori e sottovalutazioni venuti clamorosamente alla luce il 21 gennaio scorso, quando un centinaio di militanti dell'Isis ha attaccato la prigione di Al Hasakah, nel nord est della Siria, dove le milizie curde detenevano circa 3500 prigionieri jihadisti. L'attacco, nonostante la presenza delle forze speciali americane, si è prolungato per oltre dieci giorni dando vita alla più sanguinosa battaglia degli ultimi tre anni, con un bilancio di ben 374 morti fra prigionieri e militanti dell'Isis e di oltre 120 caduti fra miliziani curdi, personale della prigione e civili. Un'offensiva accompagnata, sempre il 21 gennaio, dall'assalto a una guarnigione dell'esercito iracheno nella provincia di Diyala costato la vita a 11 militari di Baghdad. La riattivazione delle cellule dello Stato Islamico sul fronte iracheno rischia di rivelarsi particolarmente preoccupante per il nostro paese. In seguito al ritiro americano il contingente italiano presente in Irak è infatti chiamato ad assumere, già dalla prossima primavera, il comando delle forze Nato. Una posizione che ci metterà inevitabilmente nel mirino del terrore jihadista.

E a raddoppiare i rischi per l'Italia contribuisce la partecipazione delle nostre forze speciali alla task force Takuba, la missione

militare europea chiamata a contenere un terrore jihadista che, complici i fallimenti francesi, continua ad avanzare sia nel Mali sia nel resto del Sahel. Minacciando di raggiungere, ben presto, le coste del Mediterraneo.

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