Mps crolla in Borsa per il pressing della Bce

Francoforte concede sette anni per azzerare le sofferenze. In allarme il resto del sistema

Mps crolla in Borsa per il pressing della Bce

Proprio mentre si agita il fantasma della Carige, il Monte dei Paschi torna a fare paura. Il titolo della banca senese ieri ha perso più del 10% in Piazza Affari, fermandosi a 1,3 euro. Ad accendere la nuova miccia è stata la Bce che, venerdì a mercati chiusi, ha diffuso un'anteprima dell'esame «Srep», cui viene annualmente sottoposta ogni banca e con cui dopo avere analizzato rischi, strategie e governance, la Vigilanza Ue assegna a ogni istituto una soglia minima di patrimonio considerata ottimale.

Nella bozza, Francoforte solleva dubbi sulla capacità della banca di attuare il piano di ristrutturazione. E raccomanda a Siena non solo di migliorare la redditività ma anche di svalutare completamente entro il 2026 (oppure spiegare perché non lo fanno) i nuovi flussi di sofferenze e lo stock di crediti deteriorati in essere allo scorso marzo, con un impatto potenziale che potrebbe oscillare - secondo le stime degli analisti - tra gli 8,7 e gli 1,1 miliardi. Una bella pressione per il Monte che l'ad Marco Morelli sta tentando di far tornare una banca «normale» dopo l'intervento dello Stato.

Ma a tremare è l'intero comparto del credito che teme un pugno duro della Bce applicato a tutto il sistema. Il Creval ha così ceduto in Borsa il 5,5%, Bper il 3,8%, il Banco Bpm il 2,3%, Unicredit quasi due punti e Intesa Sanpaolo l'1,4 per cento. La versione originale del cosiddetto «Addendum» sui crediti difficili promosso dall'allora capo della Vigilanza Ue, Daniéle Nouy prevedeva la svalutazione dello stock di deteriorati entro sette anni. Poi dopo l'altolà del Parlamento europeo (che aveva accusato la Nouy di sconfinare nel campo legislativo, di competenza di Bruxelles) era stata superata da una versione più leggera proposta dalla Commissione Ue che prevede la svalutazione solo dei nuovi flussi. Il messaggio inviato venerdì a Mps lascia però intendere che la Vigilanza potrebbe utilizzare un approccio differente caso per caso.

Non è stata solo la stretta regolamentare a far salire la tensione nelle sale operative sul titolo del Monte. Ci ha messo lo zampino anche la politica. O meglio un esponente di quel governo che oggi, attraverso il Tesoro, controlla quasi il 70% di Rocca Salimbeni. Domenica il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, ha detto che «entro due o tre mesi» il governo sarà chiamato «a fare delle scelte» sulla destinazione futura della banca, visto che si è impegnato con la Bce e l'Ue a procedere con una fusione entro giugno di quest'anno. Gli accordi presi con Bruxelles e Francoforte prevedono l'uscita del socio pubblico entro il 2021. Ma il vero obiettivo, come scriveva Il Giornale a maggio dell'anno scorso, è chiudere la partita sul Monte prima della fine del mandato di Mario Draghi al vertice della Bce, atteso in autunno. Tradotto: preparare l'istituto senese per un'aggregazione nei primi mesi del 2019 in modo da sottoporre l'operazione all'assemblea dei soci sul bilancio fissata in primavera. L'accelerazione, ipotizzata prima ancora che i gialloverdi arrivassero a Palazzo Chigi, è dunque confermata dalle parole di Giorgetti. Che «stressando» lo stato di salute di Montepaschi, questa l'interpretazione raccolta ieri da fonti romane, starebbe preparando il terreno per una soluzione a due problemi: Mps, appunto, e Carige. Con l'assist di un cavaliere, meglio se privato, che magari le salvi tutte e due.

Di banche, intanto, ieri ha parlato anche il

titolare del Tesoro, Giovanni Tria, assicurando che vi sono solo «alcuni problemi specifici con uno o due istituti bancari di taglia piccola o media. I problemi a volte diventano più grandi perché lo Stato non può intervenire».

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