Forse è colpa nostra se la carta è sempre più straccia, diventata qualcosa da rubare nonostante dietro ci sia il lavoro di persone che costa fatica e pure denaro. Abbiamo derogato a internet il concetto che tutto, chissà perché, debba essere gratis. Ma un giornale è un'anima viva, ed anche se una volta si diceva che il giorno dopo sarebbe servito solo a incartare il pesce, era solo autoironia. Vale, ancora, il vecchio detto dei latini: ovvero che scripta manent. E questo avrebbe già da tempo dovuto svegliarci dall'oblio di una presunta eternità intoccabile: dovevamo difenderci, dovevamo essere aiutati ed essere difesi. E soprattutto questo: perché non è accaduto?
Eppure proprio la rivoluzione digitale insegna che la lotta contro i ladri di cultura si può fare, a volte vincendola. Gli Anni Novanta, per esempio, era la Grande Rivoluzione: proprio alla vigilia del nuovo Millennio nasceva Napster, l'infinito server unificato che permetteva di scambiare musica sui propri computer senza pagare. Anno 1999: Shawn Fanning e, forse, Sean Parker (qualcuno dice che fosse solo un impiegato) fondarono il primo sistema peer-to-peer per la condivisione di file audio mp3, mandando su tutte le furie le multinazionali della musica che si vedeva scippati dei loro introiti. Napster non voleva guadagnare nulla, voleva la libertà. Ma artisti e produttori non la pensavano ovviamente così e dopo due anni il server fu costretto alla chiusura da un tribunale, ordine al quale non riuscì a sottrarsi. La musica fu insomma difesa dai ladri, e in questo trambusto si infilò Steve Jobs: andò dalle Major raccontando un progetto che si chiamava iTunes, il grande negozio delle canzoni da aprire su internet per ascoltare tutto sul suo iPod, e tra l'altro in AAC, in pratica l'alta definizione dei tempi: «Abbonamento a 9,99 dollari al mese, oppure 99 centesimi a stream. Ci guadagna Apple, ci guadagnate voi». Affare fatto, ed oggi abbiamo tutto in tasca. Pagandolo.
La stessa storia si è ripetuta per l'arte, pronta a difendere i suoi copyright dalle riproduzioni incontrollate attraverso gli Nft, i Non Fungible Token, gettoni che certificano la proprietà virtuale di un'opera (anche la Gioconda, sì). Ovvero: quella reale non è tua, ma dell'immagine ne entri in possesso, tutto certificato da una serie di computer criptati chiamata blockchain. Se la vuoi la paghi, se la riproduci passi dei guai. Successo (quasi) assicurato, ed anche se l'entusiasmo iniziale è un po' svanito, in ogni caso il meccanismo funziona ancora, mettendo una barriera tra la legalità e i pirati. La stessa cosa che sta succedendo in materia «pezzotto», l'ultimo ritrovato che vuole sbriciolare gli abbonamenti per le piattaforme di Tv. Qui la difesa è più impervia, su internet ci sono decine di soluzioni che consentono di aggirare il problema favorendo chi non vuol tirar fuori le cifre (anche salate, diciamolo) che chiedono i servizi streaming. Ma è un cane che si morde la coda: più mi freghi, più ti faccio pagare. E allora ecco che in questo caso si è mosso in prima persona il Governo, con soluzioni tecnologiche ma anche minacce economiche, visto che nel Decreto Omnibus che sta per essere approvato è stato inserito l'inasprimento delle multe per chi usufruisce di sistemi illeciti per vedere le partite di calcio (perché poi di questo si tratta): 5000 euro e ti passa la voglia.
Giusto: il lavoro va difeso, la cultura va difesa, la legalità va difesa.
Ma perché allora non difendere anche la nostra cara e vecchia carta? Le soluzioni si possono trovare. Sarà roba da dinosauri, come dice qualcuno, eppure ha ancora il suo fascino e, soprattutto, la sua autorevolezza, in un mondo ridotto al Bar Sport. Dove pure lì, tra l'altro, il caffè non è gratis.
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