Con la fine dell'era Visco cala definitivamente il sipario sulla Banca d'Italia come è stata conosciuta e vissuta nella prima e seconda Repubblica. Quella sorta di quarto potere, geloso e orgoglioso della propria autonomia in politica monetaria e custode unico della stabilità bancaria e finanziaria, chiude i battenti per sempre. Non per scelta o responsabilità di Visco, naturalmente: dodici anni fa il governatore ha ereditato una Bankitalia già confluita, dal 1998, nel sistema europeo delle banche centrali, cioè la Bce, e privata così del potere di stampare lire e decidere il tasso di sconto. Poi, durante il suo regno, è arrivato il colpo finale: dal 2014 anche la vigilanza sul sistema bancario è passata - quasi completamente - agli ispettori di Francoforte, e con quella anche ogni possibilità di gestire crisi creditizie domestiche, come abbiamo scoperto con il crac della Popolare dell'Etruria nel 2015 o quello delle due Popolari venete due anni dopo.
Visco è governatore dal 2011, nominato con il governo Berlusconi - che lo preferì a Saccomanni ritenendolo meno «pericoloso» - e poi confermato dal premier Gentiloni non senza polemiche (celebre lo scontro con Matteo Renzi che aveva da poco lasciato Palazzo Chigi). Ha raccolto l'eredità di Mario Draghi, chiamato alla Bce, che a sua volta aveva inaugurato il nuovo corso di via Nazionale - quello dei governatori non più a vita - dopo la burrascosa e ultra ventennale stagione di Antonio Fazio. Insomma, c'era un lungo filo rosso che legava date, uomini ed eventi di questi ultimi 30 anni e che ieri, con le ultime «Considerazioni Finali» si è spezzato.
Non è dunque un caso che le parole di Visco, libero ormai da ogni vincolo o prospettiva di sistema, abbiano fatto ben pochi sconti al governo in carica: salario minimo, ruolo dei migranti nel mondo del lavoro, urgenza del Mes e allarme sulla progressività fiscale sono tutte valutazioni urticanti per l'esecutivo. Parole che, nello stesso tempo, hanno indicato qual è il ruolo che il futuro riserva alla Banca d'Italia. Quello di uno straordinario centro studi economico, di assoluta eccellenza e merito, che analizza gli scenari macroeconomici e congiunturali per poi dire la sua sulla politica economica. In altri termini, un'autorevole authority sempre in agguato, pronta a fare il controcanto a qualsiasi governo. Questo è quello che resta a Palazzo Koch all'interno del modello - irreversibile - della zona euro. E comunque non è poco.
In tale cornice, in autunno, toccherà a Giorgia Meloni nominare il prossimo governatore (la legge prevede che sia proposto dal premier, previa deliberazione del Consiglio dei ministri e sentito il parere del Consiglio superiore della stessa Bankitalia). Il favorito è oggi Fabio Panetta, uno dei 5 membri del comitato esecutivo della Bce insieme con la presidente Christine Lagarde.
E per Meloni sarà un bel dilemma: è più importante avere un economista affidabile e abile come Panetta in un ruolo di assoluto vertice a Francoforte (ruolo che in caso di dimissioni potrebbe andare ad altra Nazione), o poter contare su di lui al vertice della versione contemporanea della Banca d'Italia?Da ieri il caso è aperto.
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