Negozi, apre solo chi vende cibi italiani

Delibera di Palazzo Vecchio: in centro gli alimentari dovranno smerciare «almeno il 70% di prodotti del territorio»

Gianpaolo IacobiniE l'Arno mormorò: «Non passa lo straniero». Ha sapore patriottico la scelta della giunta municipale fiorentina di chiudere cucine e negozi del centro ai prodotti esteri: per respingere l'invasione di greci, cinesi e indiani, sempre più padroni di minimarket, paninoteche e ristoranti, Palazzo Vecchio ha intonato il canto di guerra. Vietando l'apertura di nuovi esercizi che non vendano «almeno il 70 per cento di prodotti di filiera corta o del territorio», spiega l'assessore allo sviluppo economico Giovanni Bettarini presentando il regolamento per la tutela e il decoro del centro storico, approvato dal consiglio comunale a fine gennaio per ottemperare alle prescrizioni imposte dall'Unesco, del cui patrimonio la città gigliata fa parte col suo borgo antico. Certo, come per ogni buona norma italica che si rispetti sono previste deroghe, «ma non possiamo lasciare che il commercio, che è una parte del valore e dell'identità della nostra città, venga completamento stravolto», sottolinea fiero Bettarini. Un buon senso che meraviglia. Non fosse altro perché il Comune del sindaco iper-renziano Dario Nardella si scopre protezionista e identitario. L'esatto contrario di ciò che avviene altrove nel campo della gastronomia: se a Padova i democratici non perdono occasione per contestare la crociata del primo cittadino leghista Massimo Bitonci contro i kebabbari, a Verona il mese scorso i dem hanno avversato una proposta regolamentare identica, nei fatti, a quella fiorentina. Contraddizioni tutto sommato irrilevanti, di fronte all'idea del deputato - lui pure Pd - Khalid Chaouki di aprire la buvette di Montecitorio alla carne halal (era il 2013) e alla battaglia della sua collega europarlamentare Cécile Kyenge, impegnata a picconare le frontiere italiane per favorire l'arrivo nel Belpaese di fiumi d'olio d'oliva tunisino a dazio zero, pur di sostenere ipse dixit - un Paese alleato. «Il Pd è come un kebab. Siamo arrivati all'affettamento finale: ne è rimasta solo una piccola parte», ironizzava probabilmente non a caso qualche tempo fa un profondo conoscitore di cucine politiche del calibro di Giuseppe Fioroni. Sarà per questo che nessuno s'è meravigliato più di tanto quando a Firenze hanno deciso sommessamente, per non dare soddisfazione a chi lo sostiene da sempre che italiano è bello. E forse è pure meglio. Almeno a tavola. Così, d'ora in avanti, all'ombra della cupola del Brunelleschi pietanze e cibi parleranno per lo più toscano, con «la vendita o somministrazione di prodotti di filiera corta o comunque tipici del territorio e della tradizione storico-culturale locale». Una previsione che rimanda al catalogo della Regione Toscana, comprendente prodotti di qualità dell'agroalimentare certificati con i marchi europei di denominazione di origine protetta (Dop) e di indicazione geografica protetta (Igp), oltre che al catalogo dei prodotti agroalimentari tradizionali (Pat).

Resta il dubbio: chi e come controllerà che la soglia del 70% venga rispettata? E basterà un'etichetta tricolore a garantire comunque genuinità? «Condividiamo il senso dell'iniziativa riassume Francesco Miari Fulcis, numero uno di Confagricoltura in Toscana ma sarà necessario approfondire i temi del decoro dei locali ed il significato di molte parole delle quali si fa abuso, come la filiera corta». Insomma, la strada presa pare quella buona, sebbene ancora lunga. Ma indietro non si torna. L'Arno comandò: «Indietro, va', straniero».

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