Nei pentastellati un'altra guerra di carte bollate. L'ultrà Lannutti non molla e minaccia il ricorso

Grillo prova a puntellare Crimi, che ha espulso i ribelli pur non avendone il potere. E due di loro, Lezzi e Morra, si candidano per il nuovo direttivo

Nei pentastellati un'altra guerra di carte bollate. L'ultrà Lannutti non molla e minaccia il ricorso

Il governo Conte è caduto sulla riforma che doveva velocizzare la giustizia. Un paradosso per i 5 Stelle che detengono il non invidiabile record di partito con il più alto tasso di litigiosità giudiziaria della storia della politica italiana: risolvendo le cause tra grillini si eliminerebbe un bel pezzo di arretrato dei tribunali.

E la situazione rischia di esplodere a causa della spaccatura sul voto di fiducia a Mario Draghi. Dopo l'annuncio di Vito Crimi che i senatori dissidenti sarebbero stati espulsi dal loro gruppo parlamentare, il numero di cause rischia l'impennata. «Faremo ricorso», annuncia Elio Lannutti, uno dei dissidenti espulsi. E parla al plurale, perché pare che altri siano pronti a cercare giustizia politica in sede giudiziaria.

Il precipitoso annuncio di Crimi aveva un intento chiaro: fare da deterrente per altri dissidenti alla Camera. «È stato un errore», confida più di qualche deputato 5s fedele alla «linea Rousseau». Secondo i critici, i vertici non avrebbero considerato bene le conseguenze politiche: il dissenso di alcuni, come Nicola Morra e Barbara Lezzi, pareva gestibile. E invece l'espulsione rischia di dare una spinta all'aggregazione dei dissidenti in nuovi gruppi parlamentari, come ammette esplicitamente il senatore Mattia Crucioli, che infatti rinuncia direttamente al ricorso.

Altri invece ci starebbero pensando. Ed è proprio Crimi a fornire validi argomenti da usare in tribunale. «L'espulsione - spiega l'avvocato Lorenzo Borrè, vero esperto di regolamenti e statuti grillini dopo aver patrocinato parecchie cause in materia - andava decisa dal capogruppo del Senato e ratificata dal voto on line a meno che non sia richiesta dal capo politico. C'è un problema: Vito Crimi non è più il capo politico». C'è un problema: 24 ore prima un voto su Rousseau aveva modificato lo Statuto, cancellando la figura stessa di «capo politico» del Movimento e affidando la guida a un comitato direttivo di cinque membri, che però deve ancora essere eletto. Dunque chi comanda nel M5s? A rendere ancora più complicata la partita, c'è l'annuncio di due degli espulsi, Barbara Lezzi e Nicola Morra, di volersi candidare per il direttivo. E lo Statuto, peraltro votato da appena diecimila attivisti, è ambiguo sulla possibilità di candidarsi di un membro sottoposto a procedimento disciplinare.

Un circolo vizioso regolamentare da capogiro. Tanto che Beppe Grillo è dovuto intervenire con una nota, palesemente scritta da un avvocato, che proroga la reggenza di Vito Crimi fino a elezione del direttivo. Ma il Garante Grillo ha i poteri per fare una cosa del genere? «Le sue lettere che confermano Crimi non hanno valore - spiega Borrè -: citano un articolo dello Statuto che prevede la mancanza di un componente del direttivo, non di tutti e cinque».

Un pasticcio. Ma non certo l'unico. È ancora pendente in tribunale una complessa controversia sulla proprietà del simbolo 5 Stelle che, depositato da Grillo nel 2012 a nome di un'associazione, è poi passato d'imperio, a opera di Grillo e Casaleggio, in capo ad altre due associazioni diverse. I membri della prima associazione hanno fatto causa.

Proprio come tanti altri attivisti, consiglieri comunali e regionali, parlamentari. È il caso di Marcello De Vito, che è sospeso dal Movimento da 20 mesi, ben oltre il massimo concesso dallo Statuto.

O la consigliera regionale sarda Carla Cucchi, espulsa per aver firmato mozioni con altre forze politiche, mentre il M5s si alleava con chiunque per governare. O i casi Cassimatis e Giulivi, i candidati scelti da Rousseau e scartati da Grillo. «Il M5s - spiega Borrè - ha tentato di normativizzare il dissenso politico: un'assurdità».

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