Nel Pd cadono i tabù: no a Conte, sì a Renzi. L'ira dell'ala sinistra

Zingaretti a parole chiede il reincarico, ma ricuce con Iv. Orlando: urne più vicine

Nel Pd cadono i tabù: no a Conte, sì a Renzi. L'ira dell'ala sinistra

Cade il veto su Matteo Renzi, cade l'aut aut «Conte o elezioni», cade anche l'avvertimento «après Giuseppi le déluge».

Il Pd, ovvio, sostiene il premier uscente e andrà a fare il suo nome al capo dello Stato nelle consultazioni di oggi al Quirinale, come miglior successore di se medesimo. Ma non sembra più così tetragono nell'impiccarsi al profilo dell'avvocato del popolo (o ex tale, non è chiarissimo) come appariva fino a qualche giorno fa. «Chiedo il mandato per proporre a Mattarella un incarico a Conte, per dar vita a un nuovo governo europeista che possa contare su un'ampia base parlamentare», dice il segretario Nicola Zingaretti davanti alla Direzione dem riunita (in via telematica) per fare il punto sulla crisi. Certo, aggiunge, «Conte rappresenta nelle forze politiche un punto di equilibrio credibile». Ma c'è un ma: «Le sfide immense che abbiamo davanti richiedono un salto di qualità, stabilità e visione, e sarebbe insufficiente affidarsi ad un nome se in questi giorni tutti, e sottolineo tutti (premier uscente incluso, ndr) non compiono un atto di generosità verso l'Italia facendo un passo avanti».

La relazione del segretario viene approvata all'unanimità, e senza alcun dibattito. Del resto nei momenti di crisi si cerca di evitare divisioni palesi, e infatti la Direzione di ieri è stata preceduta da lunghissime e anche aspre consultazioni. Con una parte dei dem (in particolare le correnti che fanno capo a Luca Lotti e Lorenzo Guerini, Base riformista, e quella di Dario Franceschini, Areadem) che hanno chiesto al segretario di prendere le distanze da colui che viene soprannominato il «dottor Stranamore» del Nazareno, ossia Goffredo Bettini, e dal vicesegretario Andrea Orlando, che nelle ultime settimane hanno insistito sul «mai più con Renzi» e hanno lasciato intendere che le elezioni anticipate fossero l'unica alternativa a Conte, e magari anche quella prediletta.

Una prospettiva che rischiava di mettere il segretario in contrapposizione con i gruppi parlamentari Pd, che più volte hanno segnalato in questi giorni il loro dissenso. «Nicola purtroppo ha attorno un gruppo dirigente di non eletti che sognano solo di entrare in Parlamento, non importa se all'opposizione e con Giorgia Meloni premier», dice un dirigente delle correnti «moderate» del partito. E Zingaretti quindi accantona il voto anticipato, lasciando invece intendere che se Conte fallisse si potrebbero valutare senza pregiudizi anche scenari alternativi. E apre al ritorno di Iv: nessuna «questione personale» contro Renzi, il rapporto con Italia viva «non ha nulla a che vedere con il risentimento per il passato, se mai con legittimi dubbi sulla affidabilità per il futuro». Chiaro che i voti renziani servono alla futura potenziale maggioranza del Conte ter. Ma è sull'«allargamento» che il Pd insiste, con l'intenzione di partecipare attivamente a quella forsennata caccia al «responsabile» che Conte sta (finora inutilmente) perseguendo, e con l'obiettivo di rendere aggiuntivi e non decisivi i voti di Renzi.

Soddisfatti franceschiniani e gueriniani: «Tanto più il Pd sarà unito, con il necessario e indispensabile coinvolgimento dei suoi gruppi parlamentari, tanto più sarà efficace nel perseguire con successo i suoi obiettivi», approva Andrea Romano.

Meno soddisfatta la sinistra orlandiana, che ricomincia subito a sparare bordate contro Renzi («Iv pensa solo a destabilizzare il paese», accusa Michele Bordo) e a ritirare in ballo lo spauracchio elettorale: «Il rischio di voto anticipato c'è ed è cresciuto», assicura il vicesegretario Pd.

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