La narrazione vuole che l'approdo più semplice di questa crisi sia il Conte ter. Se lo raccontano in molti perché non richiede coraggio, né impegno. Ma le crisi, come si sa, sono tortuose, piene di curve, si sa come si aprono, ma non si sa come finiscono. In più i due protagonisti, cioè Giuseppe Conte e Matteo Renzi, continuano ad ignorarsi. «Lui - ha confidato il leader di Italia viva - non mi chiama e continua a dire in giro che non mi vuole. Allora io resto fermo. Aspetto: è la strategia del ragno con la mosca». Tutti sono consapevoli che se non si supera questo problema non si va da nessuna parte. Ieri mentre «Giuseppi» ammantava di retorica consumata l'ultima riunione del Conte bis, Dario Franceschini, uomo pragmatico e capo della delegazione del Pd, si è riunito attorno i ministri grillini, per spiegare ai suoi interlocutori un po' sprovveduti quello che, per chi conosce i meccanismi della politica, è un'ovvietà: «Guardate che se non si ricuce con Renzi, vie d'uscita non ce ne sono. Prendiamone tutti atto». Fin qui la cronaca. Poi, c'è un problema più di fondo, di visione: quando è arrivata la pandemia ed è scoppiata la più grande emergenza del dopoguerra, l'Italia era retta dall'equilibrio politico del Conte bis e non lo si è toccato per mesi non per stima, ma solo per il timore che un cambio in quei frangenti drammatici avrebbe provocato dei danni; ora si è aperta la crisi e se non sfocerà in una soluzione che sia all'altezza della tragedia, se non si metterà in campo un esecutivo solido che dia un'immagine di unità, significa che questo Paese non ha una classe politica degna di questo nome. È un dato di fatto che tira in ballo sia la maggioranza, sia l'opposizione.
E già, perché certi atteggiamenti dimostrano che in Parlamento non tutti hanno compreso la gravità del momento. Siamo ancora al piccolo cabotaggio. Dicevamo: neanche ieri i due duellanti si sono parlati. Non un saluto di commiato, non un arrivederci. Giuseppe Conte, dopo aver assolto ai rituali che accompagnano le dimissioni di un premier, si è concentrato - lui che si è paragonato al Winston Churchill dell'ora più buia - sul gruppo parlamentare che dovrebbe mettere in piedi: questione non aulica ma essenziale, perché se non riuscisse a centrare l'obiettivo non dimostrebbe di avere i numeri per formare un governo e il Colle potrebbe anche negargli la possibilità di ricevere un incarico esplorativo. Magari potrebbe affidarlo ad un personaggio dall'aurea istituzionale: l'ex presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, o il presidente della Camera Fico, per dare un identikit.
Così per tutto il pomeriggio gli uffici del Quirinale hanno atteso una risposta per sapere se dovesse inserire il gruppo «contiano» nel calendario della consultazioni, oppure no. La prima dead line era stata fissata alle 4 del pomeriggio, poi Conte ha chiesto un'ulteriore proroga. Nel frattempo Roccobello Casalino, il Goebbels fatto in casa di Palazzo Chigi, per tutta la mattinata diffondeva veline con numeri entusiastici: 12-14 senatori pronti a fregiarsi del titolo di contiani. Ritardo dopo ritardo si è arrivati a sera: tutti ad aspettare i comodi di Conte, salvo poi stilare un calendario senza (per ora) il nuovo gruppo. Inutile dire che l'altro protagonista di questa crisi, Matteo Renzi, per tutto il giorno ha monitorato il campo di battaglia. A metà pomeriggio, secondo le sue informazioni e calcoli, erano disponibili otto senatori più la consorte di Clemente Mastella, Sandra Lonardo. Non uno di più. Le crisi si giocano pure così. Con l'intelligence «casalinga» di Palazzo, i contatti, i bluff mediatici, che completano tattiche e strategia. Ieri, ad esempio, è stata la giornata in cui l'ex inquilino Palazzo di Chigi ha tentato di imporre la narrazione che l'approdo al suo terzo governo fosse un dato scontato, ineluttabile. Con Renzi, invece, a dire che non è per nulla così: «Mi debbono convincere; al momento non mi hanno convinto; dubito che mi convinceranno». Il leader di Italia viva ha fatto pure appello al suo inglese per tranquillizzare un suo parlamentare che lo spronava a non accettare il Conte Ter: «For sure. Ma tu preferiresti un premier del Pd o un governo istituzionale?», gli ha domandato.
Poi ad una certa ora del pomeriggio ha chiamato anche Silvio Berlusconi che, merito della narrazione contiana e della voglia del centrodestra di non impegnarsi, era stato convinto in anticipo che si sarebbe arrivati lì. «Renzi - aveva spiegato ai suoi al mattino - è tornato indietro. Arriverà il Conte Ter. Gli daranno un buon ministero e tutto tornerà come prima. Che faccio io? Io sono convinto che andrebbe fatto un governo di unità nazionale, questo è sicuro, ma sapete Salvini che tipo è, come pure quell'altra. Sono persone che non hanno mai affrontato situazioni di emergenza, momenti drammatici. È gente che non ha mai lavorato. Malgrado ciò, io non voglio rompere il centrodestra». Comunque con il Cav, a metà del pomeriggio, Renzi ci ha tenuto a precisare: «Io non torno indietro!». Un nuovo segnale a Conte, ma anche al centrodestra che non si vuole impegnare. Perché - è un elemento da inserire nel lungo elenco dei paradossi di questa crisi - se l'opposizione facesse un passo avanti, si aprirebbe una nuova stagione politica, e l'ipotesi del terzo governo dell'inquilino dimissionario di Palazzo Chigi sarebbe archiviata automaticamente. Mentre tirandosi indietro Salvini e la Meloni rischiano di essere annoverati, indirettamente, tra i grandi alleati di Conte. Siamo arrivati a questo. Ma purtroppo è così. Il centrodestra resta fermo e si ammanta della retorica di opposizione. «Non posso andare al governo - ha spiegato al vertice Matteo Salvini - con chi ha votato per mandarmi in galera». In realtà il leader della Lega un passo avanti lo avrebbe pure fatto, ma le dinamiche del centrodestra sono perverse. «L'unica che ci guadagna da questa posizione - è l'analisi di Mara Carfagna - è la Meloni. Salvini non si muove per paura di lei. E Berlusconi sta fermo perché non vuole strappare con entrambi. Siamo alla paralisi dell'opposizione. Io? Con Conte non si va da nessuna parte. Ma se in questo dramma uscisse un premier di alto profilo, che proponesse il governo dei migliori per fare quelle cinque cose essenziali che diano una speranza al Paese, come potrei tirarmi indietro? Per ora c'è Conte, per cui la questione non si pone».
«Il gioco - spiega Paolo Romani, un altro pezzetto dei moderati - è chi taglia la testa a Conte. Renzi non può pretendere che siamo noi, se non ci dà la certezza che non tornerà indietro». Puro «tatticismo», è l'ingrediente che si usa a iosa nelle crisi.
Lo stanno usando pure i cinquestelle, alla loro maniera un po' raffazzonata. Ieri per tutto il giorno hanno atteso il post di Di Battista, il Che Guevara del movimento, con il veto definitivo su Renzi. Un'altra mossa infantile, stile Dibba, per spaccare Italia viva.
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