Dopo il giorno degli schiaffi, quello degli abbracci. Benjamin Netanyahu ha concluso ieri a Mar-a-Lago, accolto da Donald Trump, le ultime ore del suo viaggio negli Stati Uniti, trascorso a cercare di riprendersi quel pezzo di America perduta negli ultimi mesi con la sua guerra senza quartiere a Hamas. Il tycoon è stato l'unico interlocutore che gli ha espresso un appoggio senza if e senza but, dimenticando i dissapori seguiti alle congratulazioni fatte da Netanyahu a Joe Biden dopo la sua elezione alla Casa Bianca nel novembre 2020. Quasi quattro anni di gelo, fino al tepore di ieri. «Ci sei mancato», ha detto il tycoon al leader israeliano, accompagnato dalla moglie Sarah, prima di proporre una foto con lui al centro, pollice alzato, e i coniugi ai lati. Il premier israeliano ha poi regalato all'ex presidente Usa un cappello blu con visiera e la scritta «Vittoria totale». Anche perché «se non vinco sarà terza guerra mondiale», l'ha toccata prima il candidato Gop. I due hanno poi guardato la foto di uno dei bambini ostaggi di Hamas dal 7 ottobre. «Ci occuperemo di questo», ha detto Trump.
Insomma, un incontro che ha rincuorato Bibi e lo fa tornare in patria con un mezzo sorriso dopo tanti rimproveri. Netanyahu prima dell'incontro con Trump ha dovuto infatti incassare la disapprovazione palese dei vertici democratici. Dapprima il presidente uscente Joe Biden che gli ha chiesto, fa sapere la Casa Bianca, «di colmare le lacune ancora esistenti, di concludere l'accordo il prima possibile, di riportare a casa gli ostaggi e di porre fine in modo duraturo alla guerra a Gaza» e gli ha fatto presente «la necessità di rimuovere tutti gli ostacoli al flusso di aiuti e di ripristinare i servizi di base per coloro che ne hanno bisogno». Moniti che hanno fatto impallidire il timido impegno, ribadito da Biden, «per la sicurezza di Israele contro le minacce dell'Iran e dei suoi proxy, tra cui Hamas, Hezbollah e gli Houthi».
Bazzecole in confronto alle ramanzine somministrate a Netanyahu poche ore dopo dalla vice di Biden e candidata alla Casa Bianca Kamala Harris, davvero severa con il premier israeliano, sin dall'approccio: «Abbiamo tanto di cui parlare». Poi, dopo il colloquio, ecco il resoconto della rivale di Trump: «C'è stato un movimento di speranza nei colloqui per assicurare un accordo. E come ho appena detto al premier Netanyahu, è tempo di concluderlo. È tempo che questa guerra finisca e finisca in un modo in cui Israele sia sicuro, tutti gli ostaggi vengano rilasciati, la sofferenza dei palestinesi a Gaza finisca e il popolo palestinese possa esercitare il proprio diritto alla libertà, alla dignità e all'autodeterminazione». La Harris ha ribadito il suo sostegno alla soluzione dei due Stati, «l'unica strada che garantisce che Israele rimanga uno Stato ebraico e democratico sicuro e che i palestinesi possano finalmente realizzare la libertà, la sicurezza e la prosperità che giustamente meritano». Parole che, secondo una fonte israeliana, potrebbero essere controproducenti: «Speriamo che non vengano interpretate da Hamas come una distanza tra Stati Uniti e Israele, rendendo così più difficile ottenere un accordo». Ma l'accordo difficile lo appare già. Domani a Roma si incontreranno il direttore della Cia Bill Burns e rappresentanti del Mossad, Qatar ed Egitto ma i negoziatori israeliani appaiono pessimisti sul fatto che le strigliate dei democratici americani abbiano ammorbidito Netanyahu. Accordo quasi impossibile.
E mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan accusa il congresso Usa di aver «messo la corona in testa all'Hitler della nostra era», brutte notizie per Netanyahu arrivano anche da Londra, dove il nuovo governo labour ha annunciato
l'intenzione di ritirare l'opposizone alla richiesta di un mandato d'arresto internazionale contro Netanyahu davanti alla Corte penale internazionale. L'occidente sembra aver voltato le spalle a Bibi. Tutti tranne Trump. Basterà?
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