«Sono con te, seduta a terra in quella cella dalle pareti bianche. Io sono con te». Alessia Piperno conosce bene il carcere di Evin, dov'è rinchiusa da giorni anche la giornalista Cecilia Sala. Conosce bene, benissimo, quel luogo di degrado e violenza in cui il trascorrere del tempo è scandito da paura, solitudine e dolore. Ma anche speranza di venirne fuori, di tornare liberi e di poter raccontare quello che è accaduto, proprio come è capitato a lei. Alessia Piperno via social si rivolge direttamente a Cecilia Sala. È con lei, perché la storia della giornalista le riporta alla mente i suoi 45 giorni trascorsi in quel carcere, tra «quelle pareti bianche», dove sono rinchiuse centinaia, forse migliaia di persone che il regime iraniano considera in qualche modo nemici, pericoli o semplicemente persone non gradite.
La travel blogger Alessia Piperno si è ritrovata quasi per caso in Iran proprio nel momento in cui sono scoppiate le proteste di strada seguite alla morte della giovane Mahsa Amini, la 22enne uccisa dalla polizia morale dopo essere stata rimproverata perché indossava male lo hijab. Non aveva nulla a che fare con le proteste lei, ma era straniera e aveva amici stranieri che frequentava in giro per Teheran. Tanto è bastato per gli sgherri di regime che la sera del 28 settembre 2022 l'hanno presa e portata e in cella, proprio quando con gli amici stava andando a festeggiare il suo trentesimo compleanno. Per 45 giorni ha vissuto l'inferno nel carcere di Evin, dove è stata rinchiusa nel settore 209, quello in cui sono tenuti gli oppositori del governo iraniano. «Noi donne venivamo tutte trattate come bestie. Nemmeno la carta igienica ci davano. Non ci davano nemmeno l'acqua. Quello che mangiavamo era ripugnante», ha raccontato Alessia. Dopo aver vissuto l'incubo, tra violenze fisiche e psicologiche, privazioni e terrore, venne rilasciata il 10 novembre dello stesso anno al termine di una lunga e complessa operazione di trattativa condotta dal nostro ministero degli Esteri. E ancora oggi non sono note le motivazioni dell'arresto della giovane.
Dal famigerato carcere di Evin sono passati in questi anni tutti i più noti dissidenti nonché i cittadini con doppia nazionalità arrestati nella Repubblica degli ayatollah. Il regista Jafar Panahi, che con uno sciopero della fame aveva denunciato le disumane condizioni di detenzione, la cittadina britannico-iraniana Nazanin Zaghari-Ratcliffe, l'avvocata per i diritti umani, Nasrin Sotoudeh. Anche l'attivista e premio Nobel per la Pace Narges Mohammadi, adesso liberata a seguito di un delicato intervento chirurgico ma solo per tre settimane. Una prigione tristemente nota, dove il regime iraniano pratica abitualmente torture fisiche e psicologiche, abusi di ogni sorta che si ripetono da decenni.
L'enorme penitenziario, patria delle detenzioni arbitrarie, si estende su 43 ettari ai piedi delle montagne a Nord di Teheran. Inaugurato nel 1972, subito venne gestito dalla Savak, la polizia segreta dell'ultimo Shah Mohammad Reza Pahlavi. Dopo la rivoluzione islamica guidata da Ruhollah Khomeini a Evin vennero rinchiusi filo-monarchici e dissidenti. Secondo Human Rights Watch nel 1988, alla fine della guerra con l'Irak, migliaia di detenuti furono giustiziati dopo processi sommari.
A partire dal 2009 è il centro di detenzione dove vengono rinchiusi tutti gli oppositori o presunti tali e in particolare la sezione 209, gestita direttamente dal ministero dell'Interno, è l'ala più dura, dove una luce accesa 24 su 24 è l'unico segno di vita in un contesto infernale.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.