Non diamo la colpa al cambiamento climatico. Subito azioni concrete di cura e prevenzione

I mutamenti sono un fatto acclarato, ma c'è bisogno di atti razionali per risolvere i problemi. In Italia e non solo

Non diamo la colpa al cambiamento climatico. Subito azioni concrete di cura e prevenzione
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Piemonte e Val d'Aosta vivono un incubo meteorologico tradotto in frane, esondazioni, sfollati e strade scomparse, ma sui nostri media sono scomparse anche le analisi, il teatrino delle accuse, i dati dell'Ispra, le lagnanze sul dissesto idrogeologico (che c'è, eccome se c'è) causato dall'uomo coi suoi disboscamenti e le sue aree urbanizzate: il millenarismo sul surriscaldamento si è mangiato tutto, anche il balletto delle incolpazioni storiche o contingenti, quindi le proposte politiche, le accuse sulle pianificazioni territoriali e urbanistiche, la mancata o cattiva applicazione delle leggi del 1923, 1989, 1999, 2000 e 2010. E sarà che nel Nordovest si sono scatenate delle tempeste perfette e che è «aleatorio» collegarle al riscaldamento climatico (vedasi sulla Stampa l'ottima intervista a Daniele Cat Berro della società Meteorologica italiana) ma sta di fatto che soltanto un titolo del Fatto Quotidiano (senza articolo) ieri accennava a «Nubifragi e alluvioni dalla Valle d'Aosta al Piemonte al Canton Ticino... Si continua a parlare di disastri, ma si chiama mutamento climatico».

Si chiama mutamento climatico e basta, una spiegazione fatalista che ha ormai assorbito molte altre sfide parimenti ambientaliste e globali, o regionali, locali. È colpa del cambiamento climatico se un abitato è a rischio inondazione, se sono in arrivo grandine e temporali estivi, se c'è la morte per fame nei paesi in via di sviluppo, se ci sono state le alluvioni in Emilia Romagna l'anno passato: anche se nel vicino Veneto, costruendo i bacini di laminazione con meno fatalismo e più olio di gomito (più politica) in passato avevano salvato mezza Regione.

Il problema però è leggermente mondiale: perché la lotta ormai esclusiva alle emissioni di anidride carbonica sta risucchiando ogni energia mentale ed economica. Non c'è da negare o sottovalutare nulla: il cambio del clima è un problema reale, anche se, come ha documentato anche Bjorn Lomborg nel suo ultimo documentatissimo saggio («Falso allarme», Fazi editore: e si parla di una delle 100 persone più influenti del mondo secondo Time) negli ultimi vent'anni le scoperte riguardo al clima sono rimaste coerenti: gli effetti previsti sulla temperatura e sull'innalzamento del livello dei mari non sono sostanzialmente cambiati. È la discussione sul tema a essere cambiata radicalmente: la retorica sull'argomento si è fatta sempre più estrema, irrazionale e incaponita. La vulgata popolare planetaria, tra rassegnazioni e allarmismo puro, vuole che ci sia tempo solamente sino al 2030 per risolvere il problema del cambiamento climatico: l'ha detto la scienza, si sottolinea. Ma non è la scienza a dire questo: è la politica. La scadenza del 2030 è stata fissata da politici che posero agli scienziati una domanda specifica: che cosa servirebbe per mantenere il cambiamento climatico al di sotto di un obiettivo praticamente impossibile da raggiungere? La risposta e basta documentarsi - è stata che è appunto impossibile, ma che, per avvicinarsi a un simile obiettivo, servirebbero degli enormi cambiamenti entro il 2030.

Il famoso accordo politico di Parigi (2015) tuttavia lo promette, ma non lo manterrà: il patto parigino, il più dispendioso della Storia, potrebbe comportare dei costi incredibili e insostenibili anche se, secondo ogni stima, si raggiungerà solamente l'1 per cento di quanto promesso dalla una politica: la quale rischia, frattanto, di distogliere attenzioni e interventi e denari da altri problemi enormi o apparentemente più trascurabili come il dissesto idrogeologico in Italia, come spiegò indirettamente anche un rapporto delle Nazioni Unite, il «Climate change»: «Gli effetti del cambiamento climatico saranno minori rispetto all'impatto di altri fattori quali i cambiamenti della popolazione, dell'età, del reddito, della tecnologia, dei prezzi relativi, dello stile di vita, della regolamentazione, della governance e di molti altri aspetti dello sviluppo socioeconomico». Nazioni unite, 2014.

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