La normalità del sistema comincia ora. Fine di un'anomalia durata 35 anni

Il codice Vassalli del 1989 è stato stravolto dalle Procure durante Mani Pulite perché ritenuto troppo garantista: adesso si cambia

La normalità del sistema comincia ora. Fine di un'anomalia durata 35 anni
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Le parole chiave sono «transizione» ed «epocale»: vediamo perché. La transizione, anzitutto, non è quella che attende la Riforma nel suo iter di completamento, che va da adesso ai prossimi due anni: la vera transizione è stata negli ultimi 35 anni, durante i quali questo Paese si è dimenato in un sistema «misto» a metà strada tra il vecchio rito accusatorio (fascista) e l'auspicato rito accusatorio di tipo anglosassone. In parole poverissime, per dirla con Piercamillo Davigo (foto), negli anni novanta aspettavamo Perry Mason e invece è arrivato Antonio Di Pietro, come del resto ha scritto lo stesso Guardasigilli in un suo libro dell'estate 2022: «La nostra Costituzione, nata dalla lotta contro il fascismo, ha inghiottito il basamento stesso del Codice Penale fascista». Ergo, l'unica era cambiarla.

Sicché «epocale» sarebbe questa Riforma se funzionasse, e non perché si abbiano dubbi sulla sua architettura che è la migliore e unica possibile, bensì per quell'incognita che ha sempre vanificato ogni tentativo di riformicchia degli ultimi trent'anni: ossia l'interpretazione di legge (a opera dell'oggetto principale della riforma, i magistrati) e quindi la conseguente giurisprudenza che ha sempre permesso di rovesciare le velleità di chi per esempio, il 24 ottobre 1989, aveva legiferato e varato il cosiddetto Codice Vassalli. Quel Codice auspicava procedure diametralmente opposte a quelle che le procure imposero dal 1992 (Mani pulite) con il benestare dei piu alti livelli della magistratura: lo stesso Codice, non a caso, fu dapprima osteggiato dagli stessi magistrati che poi si fecero «rivoluzionari», appunto stravolgendolo. Sin dai primi anni novanta, e basterebbe questo, non si contavano i togati che avevano lanciato allarmi contro una codificazione che ritenevano troppo garantista; lo stesso procuratore generale della Cassazione (ossia il primo magistrato italiano) definì le nuove norme addirittura come «ipergarantiste», e dello stesso tenore furono le relazioni dei procuratori generali delle Corti d'appello: quindi che cos'è successo poi?

Non serve essere giuristi per capirlo: i principi del Nuovo Codice si proponevano una pari dignità giuridica tra accusa e difesa (ecco perché si parlava di inserire la figura dell'avvocato in Costituzione) oltre a una totale segretezza delle indagini e, viceversa, una totale pubblicità del successivo processo, insomma il contrario di com'è oggi. Ma soprattutto auspicava, quel Codice, la riproposizione e la formazione delle prove (comprese le confessioni e le testimonianze) rigorosamente nell'aula del processo e non delle indagini preliminari, altrimenti non avrebbero avuto valore, inoltre sostituivano il carcere preventivo con una «custodia cautelare» da adottarsi come «extrema ratio», intesa come rimedio eccezionale, insomma il contrario di com'è oggi. Il Codice del 1989 fu varato in un Paese ancora scottato dal caso di Enzo Tortora e che cercò d'inventarsi il citato sistema «misto» che forse non può esistere, perciò non introdusse la separazione delle carriere tra pubblica accusa e giudici (due figure che fanno lo stesso concorso, seguono lo stesso percorso formativo, passano da un ruolo all'altro e spesso sono vicini di pianerottolo) e neppure abolì quell'ipocrisia chiamata «obbligatorietà dell'azione penale» (che non esiste, perché i pm mandano avanti i procedimenti che interessano loro) anche perché l'introduzione di questi due pilastri del processo accusatorio avrebbe reso necessario un cambiamento delle norme costituzionali. E infatti è quello che il governo sta cercando di fare.

E qui si torna alle espressioni «transizione» ed «epocale», che sono entrambe curiosamente presenti nella «Storia della prima Repubblica» (Il Mulino) scritta da Aurelio Lepre, cattedratico di Storia contemporanea, giudicata «la più convincente ed equilibrata» anche da Giovanni Sabbatucci, altro accademico tra i più accreditati. Scrive Lepre: «Stiamo vivendo una transizione infinita, che non sembra offrire punti certi di riferimento. La prima edizione di quest'opera si chiudeva con gli avvenimenti del 1992, una data che pareva assumere un significato epocale a causa della drammatica atmosfera creata dalle inchieste... Era diffusa la convinzione che la società italiana fosse arrivata a una svolta. Ma così non era stato...

Siamo ancora in mezzo al guado». Aurelio Lepre non si riferiva solo ai problemi della giustizia, che pure causò la fine della Prima Repubblica: ma, oggi, pare chiaro a tutti che senza riformare la giustizia non si va da nessuna parte.

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