No al voto sull'Autonomia: la Consulta gela la sinistra

La Corte respinge il referendum sulla riforma. Ammessi invece i quesiti su cittadinanza e lavoro

No al voto sull'Autonomia: la Consulta gela la sinistra
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Una decisione sofferta, costata quasi otto ore di discussione in camera di consiglio, chiude le porte al referendum sulla autonomia differenziata. Per la Corte Costituzionale il quesito avanzato da sei regioni «rosse» contro la legge del governo Meloni che trasferisce poteri centrali alle Regioni è superato dalla decisione con cui la Consulta stessa ne aveva modificato parti rilevanti alla fine dello scorso anno. Ma prima dell'estate gli italiani saranno comunque chiamati alle urne per cinque referendum cui la Corte dà invece il via libera: sulla cittadinanza agli extracomunitari, sul jobs act, sull'indennità di licenziamento nelle piccole imprese, sui contratti di lavoro a termine, e sulla responsabilità del committente negli incidenti negli appalti.

Si andrà a votare, ma la carica politica del voto viene assai depotenziata da un dato di fatto: gli italiani dovranno esprimersi su leggi figlie di governi diversi (basti pensare al jobs act di Matteo Renzi) mentre non si terrà il referendum su quella che è stata una delle riforme-simbolo del governo di centrodestra, specie nella sua componente leghista. È la legge firmata dal ministro Roberto Calderoli che apre la strada al trasferimento di importanti competenze dallo Stato centrale alle Regioni che ne facciano richiesta. Il voto sulla autonomia differenziata si sarebbe inevitabilmente trasformato in un voto pro o contro il governo.

La decisione è stata presa dai soli undici giudici costituzionali in carica, visto che quattro seggi vacanti sono ancora in attesa che il Parlamento ne designi i titolari (l'ennesima seduta delle Camere è prevista per oggi) e verrà firmata da Giovanni Amoroso, destinato a venire nominato presidente della Corte. La decisione non era scontata, il comitato promotore del referendum (presieduto dall'ex presidente della Corte, Giovanni Maria Flick) sosteneva che essendo la legge rimasta comunque in vigore, anche dopo la dichiarazione di incostituzionalità di suoi pezzi rilevanti, il referendum si poteva tenere comunque. Ma la Corte ha deciso che gli italiani a quel punto si sarebbero trovati sulla scheda una domanda quasi incomprensibile. «La Corte ha rilevato che l'oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari. Ciò pregiudica la possibilità di una scelta consapevole da parte dell'elettore», dice il comunicato conclusivo della camera di consiglio. Se invece, sottolinea la Corte, l'obiettivo era quello di abrogare non la legge Calderoli ma l'autonomia differenziata in quanto tale, allora il referendum sarebbe inammissibile perché l'autonomia ormai è prevista nella Costituzione, e la Costituzione non può essere sottoposta al voto popolare.

La legge «Calderoli» dunque resta in vigore, anche se con le modifiche imposte a dicembre dalla Corte (in sostanza, non viene consentito il passaggio in blocco alle regioni della competenza su intere materie), e le reazioni della maggioranza sono di sollievo. Festeggia Luca Zaia, presidente della Regione Veneto: «La Consulta ha dichiarato inammissibile il referendum abrogativo della legge sull'Autonomia differenziata delle Regioni. Ora Avanti tutta!». Per Maurizio Gasparri di Forza Italia la decisione è «assolutamente logica», per Luca De Carlo di Fratelli d'Italia la sentenza è «una vittoria della democrazia e della Costituzione». Dal Pd si dice che la legge era già stata «demolita» o addirittura «morta»: ma la delusione è chiara.

Più scontato era il via libera ai cinque referendum «minori» promossi da sinistra, sindacati e radicali, tra cui quello che punta ad abbassare da

dieci a cinque anni il tempo di attesa per gli immigrati per ottenere il passaporto italiano. Ma su questi voti incombe il dubbio sul raggiungimento del quorum, che negli ultimi trent'anni è stato superato solo una volta.

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