La nuova sfida degli Alpini: "Combattere per il futuro"

Sembrano fuori dal tempo ma i loro valori sono sempre attuali: "Non siamo qui per nostalgia ma per essere protagonisti del nostro tempo". A partire dalla solidarietà

La nuova sfida degli Alpini: "Combattere per il futuro"

Treviso - Qual è il segreto degli alpini? Vivono in un mondo che non è il loro, senza più la naja obbligatoria, i coscritti, le campagne di addestramento. La gente è individualista e ripiegata. Le ricorrenze vengono celebrate per abitudine. Le memorie si perdono. Eppure loro, cascasse il mondo, una volta l'anno si ritrovano all'Adunata, si danno appuntamento dopo 12 mesi nell'incrollabile certezza che nessuno mancherà alla parola. Si ritrovano, respirano aria di amicizia, di festa. Luca Fin è seduto a un tavolaccio da sagra nel cuore di Treviso, la compagnia è già alla terza caraffa di cabernet, la lucidità è sul viale del tramonto ma un barlume sussiste: «Devi capire che questa prima di tutto è una festa. Noi siamo contenti di vederci».

E che cosa si festeggia nella Marca, in una città bella e indolente, ricca ma disorientata dalla crisi, presa in ostaggio per tre giorni dalla marea di alpini? Quest'anno l'Adunata porta il numero 90. Ed è il centenario di Caporetto, la sconfitta per antonomasia della Grande guerra. Ma qui si celebra la resistenza del Piave. «Non passa lo straniero», mormorava il fiume e cantavano gli alpini sulla sponda di qua. Potrebbe essere lo slogan dei leghisti d'oggi, che però si sono guardati bene dal cavalcare il maxi raduno. La penna nera non si tocca perché per gli italiani è ancora sacra. È il simbolo di quello che stiamo perdendo: identità, memoria, appartenenza, spirito di corpo, solidarietà, capacità di stare vicini a chi sta peggio.

Daniele Guenzi, 55 anni, toscano di Comano di Massa, vive a Parigi da 21 e non ha mai perso un'Adunata: si prende tre settimane di ferie per essere sicuro. È vicepresidente della sezione francese e tesoriere del gruppo parigino. Famiglia di alpini: «Quando feci la visita di leva, avevo tre opzioni: scrissi tre volte alpino. Volevano mandarmi dallo psichiatra». In Francia le penne nere sono 198. Organizzano raduni e feste, il 4 Novembre sfilano all'Arco di Trionfo e visitano ogni anno i due cimiteri militari in cui sono sepolti soldati italiani, a Bligny (3.800) e Supir (596). Oggi che non si va più a trovare i genitori defunti, questi alpini rendono omaggio ai connazionali dimenticati. «Vogliamo raccogliere fondi per sistemare il camposanto di Supir, organizzeremo cene e tombole. Ce la faremo». L'estate scorsa era in Italia quando il terremoto squassò per la seconda volta il Centro Italia. Gli alpini di Massa Carrara, racconta Piergiorgio Belloni, penna nera con alle spalle 55 missioni umanitarie a Sarajevo, avevano appena comprato per 30mila euro una cucina da campo da 300 pasti da piantare ad Amatrice. Mancavano pentole e arredi. Guenzi è direttore della logistica della catena alberghiera Ritz, conosce tutti i ristoratori italiani di Parigi: un giro di telefonate e sono saltati fuori 17mila euro di materiale.

Gli alpini sono così, un corpo unico. Marco Piovesan è vicepresidente della sezione di Treviso. «Che cosa ci unisce e ci riunisce? L'aver condiviso un pezzo di vita, un legame forte, quasi una fratellanza, un ideale in cui ci riconosciamo». Quasi un nuovo Dna. «Una bandiera. Un giuramento. Anche nell'esercito dei professionisti si giura, ma per molti è ormai un impiego come un altro e un'associazione d'arma somiglia più a un dopolavoro. Per molti, invece, fare l'alpino non è stata una scelta ma un obbligo. E il militare è stato essere educati ad affrontare gli obblighi, a rapportarsi con gente sconosciuta e non voluta, a convivere in camerata nel bene e nel male. Si impara il rispetto, si cresce, si soffre. Per me è stata una scuola di vita. All'inizio tutti odiavano il militare, poi il giorno del congedo tutti piangono».

«Si va all'Adunata non per la nostalgia, ma per la disponibilità a essere protagonisti dentro il tempo in cui ci è dato di vivere», scrive il direttore del mensile L'alpino, don Bruno Fasani, che sfila orgoglioso della penna nera sul cappello. «Smettere di lottare è una forma di diserzione. Un anno di naja non era un anno perso». Beppe Parazzini era presidente dell'Associazione nazionale alpini quando fu abolita la leva obbligatoria. «È l'unico caso di un articolo della Costituzione disatteso da una legge ordinaria, all'italiana. Io sono orgoglioso di aver fatto il militare, coltivo ancora le amicizie strette allora. Se volevano un esercito di professionisti, si poteva tenere la naja come vivaio. Dissero che si rubava un anno di lavoro ai giovani.

Adesso sono tutti disoccupati, non hanno nulla di cui essere derubati: potrebbero frequentare una scuola di vita ed essere utili nelle emergenze. Guardiamo le difficoltà dopo i terremoti senza truppe alpine da mobilitare, e a costo quasi zero. Però noi alpini interveniamo lo stesso. Siamo abituati a reagire e non a subire».

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